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Calabria, il pm contro la cosca cita Gandhi. “Abbiamo il dovere di fermare la ‘ndrangheta”
15 Mag 2013 10:42

«Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ognuno».

Cita Gandhi, il pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Ricorda le sue parole ad inizio della requisitoria contro il clan Serraino di Reggio Calabria. “I boss della montagna” ascoltano in silenzio da dietro le sbarre dell’aula bunker della città dello Stretto.

E per una volta tremano. Lombardo è uno determinato. Ne ha fatti condannare tanti. Ed ora, forse, tocca a loro.

Tramano perchè Lombardo è sereno in aula. Determinato, calmo, diretto.

E dice: «Non ho particolari argomenti da rassegnare in questa sede che mi servano a dimostrare che la cosca Serraino è operativa in ampi territori della città di Reggio Calabria, è parte integrante della ‘ndrangheta di vertice che governa questa realtà sociale. Mi basta citare i numerosi episodi tipici della sopraffazione mafiosa, per trarre la convinzione che i Serraino, ancora oggi, fanno parte di quella ‘ndrangheta che decide le sorti di ognuno di noi, che condiziona il destino di migliaia di persone che si sentono libere solo perché hanno voglia di illudersi di esserlo o ritengono che quello sia l’unico modo per trovare la forza di andare avanti in una realtà inginocchiata davanti ad un boia a cui nessuno sembra aver veramente voglia di togliere il cappuccio».

Il sostituto ricoda poi i tanti testioni sfilati duranti i mesi del dibattimento: «Abbiamo ascoltato insieme le paure, fisiche e psicologiche, di soggetti che quel mondo hanno sfiorato o vissuto, ed abbiamo visto gli occhi che ci guardano per chiedere aiuto, per capire se in quest’aula di Tribunale la giustizia passa per il nostro coraggio o per la loro vigliaccheria».

Quindi rifellette ancora a voce alta «Mi viene in mente una celebre frase di Martin Luther King che in uno dei suoi celebri discorsi ad un certo punto disse: “La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vana gloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto?”».

Per questo afferma: « Non ho sogni di giustizia, ho la certezza che mi deriva dall’applicazione delle regole: quelle stesse regole che oggi, oltre ogni ragionevole dubbio, mi consentono di affermare che questi imputati sono colpevoli».

E infine: «La mia certezza deriva dalla convinzione che è possibile ricostruire la storia criminale recente di un’organizzazione come quella di cui ci occupiamo solo comprendendo il linguaggio, spesso simbolico o gestuale, di coloro i quali determinano le sorti di una struttura così complessa: le numerosissime intercettazioni di cui il Tribunale dispone sono la sintesi migliore di mille sfaccettature, intonazioni, sottintesi del modo di parlare di chi consapevolmente fa parte di una organizzazione di tipo mafioso.

Quello non è il mio linguaggio, non è il linguaggio dei calabresi perbene, in quei messaggi violenti originati da arroganza culturale tipica di chi non regge il confronto ad armi pari, ci sono i significati che hanno reso, nell’indifferenza generale, la ‘ndrangheta quella che è oggi. Chi come me, come voi, quei significati li comprende, quegli sguardi li conosce, quei gesti li capisce ha il dovere di combatterli con tutte le sue forze, senza girarsi mai dall’altra parte nella speranza che dopo di noi ci sarà qualcuno che finalmente farà lo sforzo che non siamo stati in grado di fare».

C’è tutto in quelle parole. Tutto. C’è il senso dello stato. La sua fragilità. La forza della ‘ndrangheta e la determinazione di un magistrato. C’è la società intimorita e ci sono le belle persone.

Ci siamo tutti in quella requisitoria che chiede a giudici fino a 26 anni di carcere per boss e picciotti.


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