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La grande bellezza, realismo documentario che diventa arte
28 Mag 2013 18:26

Una delle citazioni più utilizzate, anche prima dell’avvento della rete e dei social media, è una frase del principe Miškin nell“Idiota” di Dostoevskij: «la bellezza salverà il mondo». E quando è stato annunciato “La grande bellezza”, il nuovo film di Paolo Sorrentino, ho pensato inevitabilmente anch’io a uno dei capolavori della letteratura russa. Sorrentino è un regista che apprezzo molto e Toni Servillo, protagonista assoluto del film, è, in questo momento, “l’attore” italiano.

Ho visto il film il giorno dell’uscita nelle sale cinematografiche, mettendomi in coda al botteghino come avevo fatto poche volte in passato. La sala era dunque piena e, caso più unico che raro, per tutta la durata della proiezione non un brusio ha disturbato la visione. Una piacevole sorpresa.

Con grande stupore invece la mattina successiva leggo su molti quotidiani e giornali specializzati, stroncature per il film. E, anche in questa circostanza caso più unico che raro, le stroncature erano molto simili alle recensioni dei libri: tutte uguali. La differenza è per i libri molti utilizzano il comunicato stampa delle case editrici e aggiungono qualche frase all’inizio e alla fine del pezzo, per personalizzarlo.

Nel caso del film di Sorrentino quasi tutte le recensioni, quasi tutte perché ovviamente ci sono delle eccezioni molto qualificate, hanno utilizzato lo stesso schema. Hanno paragonato, e nel paragone Sorrentino era sempre perdente, “La grande bellezza” ai film più importanti mai realizzati sullo stesso tema. I più citati “La dolce vita” di Federico Fellini e “La terrazza” di Ettore Scola. Recensioni di maniera, scritte più per esibire la propria conoscenza piuttosto che per analizzare e commentare una nuova opera cinematografica. Non condivido questo metodo sia che si tratta di un’opera letteraria sia che si tratti di un film piuttosto che di un quadro o di una scultura.

Ogni opera d’arte è un unicum e in quanto tale va osservata, studiata, giudicata.

In quest’ottica penso che il film di Paolo Sorrentino sia un gran bel lavoro. Un’opera che “resterà” al pari dei film di Nanni Moretti, e lungi da me un accostamento tra i due registi o tra le loro opere, perché trasforma con la lente d’ingrandimento dell’artista una quotidianità sempre più “cafonal”, alla quale ormai ci siamo assuefatti, in un qualcosa di diverso dalla cronaca, in cinema, appunto. Alla narrazione del mutamento della fauna umana italiana fa da contrappunto la bellezza immanente e senza tempo della “città eterna”. Ai seni e le labbra rifatte fanno da contraltare le sculture del Gianicolo perfette nella loro rotonda composizione statuaria, alla costruzione della propria vita basata sulla menzogna e sul malaffare, il lento scorrere del Tevere che attraversa, misura e controlla la vita della città.

Una sorta di realismo documentario rivisitato e presentato sotto nuove spoglie.

In questo senso la trama, il senso stesso del film, diventano quasi un accessorio inutile perché il materiale più pregiato del film è la potenza iconica dei personaggi, di tutti i personaggi rappresentati in scena. A queste icone Sorrentino giustappone altre icone, l’architettura e le forme della città, in una narrazione che mai distoglie, piuttosto accompagna e conduce il pubblico a scoprire che «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco, la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato…» che già Céline aveva indagato nel suo primo romanzo “Viaggio al termine della notte”.

E poi c’è Toni Servillo. La scena con cui irrompe nel film vale da sola il prezzo del biglietto. Sulle note della versione disco di uno dei successi più popolari di Raffaella Carrà, al centro di una scena che tante volte abbiamo visto anche nei talk show televisivi, ruotando su stesso, con la sigaretta in bocca e un sorriso che contagia Jep Gambardella si prende il centro della composizione non solo in senso figurato. Sornione, sempre elegante, di quell’eleganza tipicamente napoletana di cui si sono perse le tracce, Servillo è ancora una volta il fuoriclasse su cui può contare Paolo Sorrentino.
«Non volevo essere semplicemente un mondano, io volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle festa, volevo avere il potere di farle fallire».


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