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Il Gay Pride raccontato da un celerino
19 Giu 2013 13:05

Qualcuno forse se ne accorgeva. Passavano tutti da là, ci lanciavano uno sguardo non troppo felice, e andavano avanti. Ora, che un agglomerato di celerini in tenuta anti sommossa non faccia sprizzare felicità a chi ci passa accanto, è normale. Succede allo stadio, agli scioperi, quindi direi anche che è normalissimo.

Qualcuno però no. Qualcuno esitava. Esitava su di me. Io non lo so perché. Avevo la divisa da servizio d’ordine come gli altri: stivali, giubbotto antiproiettile, caschetto con visiera, scudo. Ero uno, uno dei tanti celerini mandati a vigilare sull’ordine al Pride.

Ragazzi, una festa il Pride. C’era proprio un’aria diversa, e non so cosa avrei fatto per buttare all’aria tutto e andare a divertirmi nella folla. Ma io amo il mio mestiere, e il mio mestiere è fare in modo che tutto vada bene. Purtroppo anche usando la forza qualche volta. Ecco perché ad un corteo del Pride un manipolo di celerini non attira esattamente sguardi felici dei presenti.

Qualcuno però sembrava accorgersene. Sembrava capire. Captare. E per un secondo, forse due, incrociava il mio sguardo. Tanto bastava perché sotto il caschetto, io diventassi rosso. Ma per fortuna, gli altri non se ne accorgevano. Gli altri erano i miei colleghi, apparentemente ugualissimi a me. Solo che qualcuno ogni tanto si lasciava andare a qualche battutaccia. Ad un certo punto, davanti alla nostra postazione è passato Mario, un bel ragazzo che fa il musicista e che io conosco di vista. Anche lui mi conosce ed è per questo che feci un passo indietro e abbassai la visiera del casco.

Nella Celere nessuno sapeva. Io ho scoperto di essere gay a 18 anni, quando un ragazzo della mia stessa comitiva di amici mi baciò in una calda serata di fine estate. Per mesi non ho capito cosa stesse succedendo nella mia testa: io ero uno che con le ragazze andava forte. Cioè avevo successo. Ma pensandoci bene era più una roba da gara, da gioco adolescenziale.

A me piaceva Roberto e a Roberto piacevo io. E infatti mi baciò, senza che io potessi dire nulla, perché quando le tue narici riconoscono un determinato odore non puoi fare nulla. Ecco io lo so che sono gay. Lo so da quindici anni. E da dieci sospendo la mia sessualità per sei ore al giorno. Quando metto la divisa e vado a lavorare. Ora, non si sa perché, ma un poliziotto gay, per di più un celerino, non sarebbe ben visto. “Lascia stare, di farebbero subito riformare, o magari avresti grane” mi dicevano. E così ho fatto: che gli frega a loro con chi abito io? Con chi convivo? Con chi faccio l’amore?

Solo che lì, nel pieno del Pride era diverso. Era diverso e mentre tutti mostravano finalmente con orgoglio il loro bisogno di amare senza paura, io mi sentivo ancora più compresso, più ingabbiato. E sarà forse stato per questo che quando è passato Roberto, ho mandato tutto affanculo, ho gettato il caschetto e l’ho baciato, lì davanti alla mia squadra, ai dodici colleghi con cui condividevo le giornate, che da quel momento hanno capito di non aver capito nulla di me. Il giorno dopo ho preso due settimane di ferie, non credo che mi continueranno a mandare a far servizio d’ordine. Ma da quel bacio con il casco gettato per terra, la mia gabbia è sparita.

* Questo testo accompagna “Rainbow Street“, mostra fotografica di Benedetto Tarantino che propone gli scatti del “Palermo Pride 2012“, aperta da giovedì 19 giugno alle ore 19 allo Spazio Alloro di Palermo.


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