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Rosaria, la giornalista minacciata dai Casalesi. “Pensai, ora mi ammazzano”
25 Giu 2013 10:46

Le minacce velate, quelle esplicite (“ti sparo alle gambe!“), le telefonate anonime, gli insulti nei corridoi del tribunale, le scritte ingiuriose che si materializzano sui muri della città e sulle scale che conducono alla redazione. Vive sotto scorta da ormai cinque anni Rosaria Capacchione, per aver raccontato da giornalista esperta di cronaca nera e giudiziaria decenni di misfatti della criminalità organizzata casertana, sin da quando il clan dei Casalesi, pur potentissimo e sanguinario, non richiamava ancora l’interesse degli organi di informazione di mezzo mondo.

Cosa significa fare il reporter in terra di frontiera, e quali sono i pericoli in cui ci si imbatte allorché si infrange la cortina del silenzio che nelle intenzioni del clan deve coprire gli affari più loschi, lo ha spiegato in un’aula di giustizia la stessa giornalista, che da febbraio ha lasciato la cronaca giudiziaria per assumere l’incarico di senatrice del Pd

Capacchione ha testimoniato, in qualità di parte offesa, davanti alla terza sezione del Tribunale di Napoli (presidente Aldo Esposito), al processo che vede imputati, tra gli altri, due boss di primo piano dei Casalesi quali Francesco Bidognetti (Cicciotto ‘e mezzanotte) e Antonio Iovine, e l’avvocato Michele Santonastaso.

Al centro del processo – per minacce rivolte alla Capacchione, allo scrittore Roberto Saviano e a diversi magistrati antimafia – proprio un’iniziativa dell’avvocato Santonastaso che il 20 marzo 2008, al dibattimento di appello contro i boss della cosca, parlando a nome dei due camorristi, chiese la remissione del processo per legittimo sospetto puntando l’indice contro Capacchione.

In sintesi nella lettera si attribuiva agli articoli della giornalista e alla regia dei magistrati il destino giudiziario dei Casalesi, arrivando al punto di insinuare che il processo era stato sottratto a un giudice garantista per colpa della cronista. “È stata una delle poche volte che mi sono spaventata davvero. Quando ho letto che mi attribuivano la responsabilità dell’esito dei processi ho pensato: è arrivato il momento che mi ammazzano“, ha detto la senatrice rispondendo alle domande del pm della Dda Antonello Ardituro.

Una situazione di rischio apparsa ancor più concreta quando, pochi mesi dopo, ebbe inizio la fase più acuta della strategia stragista di una fazione dei Casalesi – il gruppo Setola – con l’uccisione di collaboratori di giustiziaattentati ai loro familiari e l’eliminazione di imprenditori che avevano testimoniato, anche diversi anni prima, contro gli esponenti del clan.

Le domande del pm Ardituro hanno riguardato le tante intimidazioni che la giornalista ha subito nel corso della sua attività, sia prima sia dopo la lettura in aula della lettera del duo Iovine (all’epoca latitante)- Bidognetti. 

La giornalista ha ricordato di quando il capo dei capi, Francesco Schiavone detto Sandokan, le telefonò in redazione minacciandola di gambizzarla se non avesse smesso di scrivere sul suo conto. Ha accennato agli insulti che le venivano rivolti nei corridoi del Tribunale dai familiari degli imputati durante le pause dei processi. E a uno strano furto avvenuto nella sua abitazione a Caserta dove i ladri non toccarono i soldi o gli oggetti di valore ma si impossessarono soltanto di una targa che le era stata consegnata da Rita Levi Montalcini. Fino alla decisione, all’indomani della istanza di remissione del processo “Spartacus“, di assicurarle la protezione da parte delle forze dell’ordine: “Da allora – ha detto – non sono più padrona della mia vita”


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