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“Schifani era nelle mani della mafia”. Lo dicono i pentiti e il giudice ordina nuove indagini
07 Lug 2013 09:07

Il senatore Renato Schifani non si scompone alla notizia che il gip di Palermo, Piergiorgio Morosini, ha deciso di non ha accogliere, almeno per il momento, la richiesta di archiviazione dell’indagine per concorso in associazione mafiosa a suo carico.

Il giudice ha fissato per il 23 luglio un’udienza in cui ascolterà accusa e difesa e poi deciderà. L’udienza potrebbe concludersi con l’archiviazione, con la disposizione di nuove indagini o con l’imposizione alla Procura di formulare l’imputazione a carico di Schifani.

Il capogruppo Pdl al Senato dice: “Dopo due anni di notizie apprese a mezzo stampa dell’esistenza di un’indagine a mio carico oggi finalmente ho avuto modo di prendere visione della motivata richiesta di archiviazione sottoscritta dal pool antimafia di Palermo”.

L’ex presidente del Senato è convinto che “gli eventuali approfondimenti disposti dal giudice confermeranno la mia assoluta estraneità“.

La prima indagine su Schifani fu aperta dalla Procura di Palermo nel 1996 per la vicenda degli appalti della metanizzazione della città. A tirare in ballo il politico era stato il pentito Salvatore Lanzalaco, ma non c’erano riscontri e l’indagine era stata archiviata nel 1998 per poi essere riaperta nel 1999 dopo un’informativa della finanza. Quest’indagine era stata poi archiviata nel 2002. La procura ha poi iscritto Schifani nell’estate del 2010, per maggiore riservatezza, non col nome di Schifani ma con un nome di fantasia: Schioperatu. Nell’inchiesta, sono confluite le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza.

L’ex braccio destro dei boss di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano ha riferito di visite che Schifani, all’epoca avvocato amministrativista, avrebbe fatto al suo cliente, l’imprenditore Pippo Cosenza. Negli stessi capannoni sarebbe stato presente anche Filippo Graviano, che allora non era latitante.

Alle accuse di Spatuzza si sono aggiunte quelle dei collaboratori di giustizia Francesco Campanella e Stefano Lo Verso, entrambi vicini al clan mafioso dei Mandalà.

Lo Verso, testimoniando in aula al processo per favoreggiamento aggravato al generale dei carabinieri Mario Mori, disse di avere saputo dal capomafia Nicola Mandalà che avevano “nelle mani Renato Schifani, Marcello Dell’Utri, Totò Cuffaro e Saverio Romano”.

Mentre Campanella, poi querelato per diffamazione da Schifani – il gip archiviò ma espresse dubbi sulla veridicità della accuse del pentito – parlò, tra l’altro, dei rapporti societari tra il presidente del Senato e Nino Mandalà, padre di Nicola, anche lui condannato per mafia.

Elementi che il pm non ha ritenuto sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio.

Il gip Morosini, però, evidentemente ritiene necessari approfondimenti ulteriori: da qui la decisione di sentire le parti.


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