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Tutti i punti deboli del processo alla trattativa Stato-Mafia
04 Lug 2013 10:21

Dallo storico all’ex magistrato il giudizio è concordemente critico: l’impianto del processo di Palermo sulla trattativa Stato- mafia presenta “varie smagliature” e propone una lettura dei fatti appiattita sulle finalità della giustizia penale.

Il confronto, che si è svolto ieri a Palermo, ha preso spunto da un saggio del giurista Giovanni Fiandaca secondo il quale la Procura di Palermo si sarebbe mossa in “un’ottica di incondizionata condanna politica e morale” per cui “l’unica legalità possibile” sarebbe quella “ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente la magistratura”.

Giuseppe Di Lello, ex giudice del pool antimafia di Falcone e Borsellino, ha colto altri punti deboli: le posizioni sfumate di Giovanni Conso e Nicola Mancino, che pure sono indicati dall’accusa come i “terminali” della trattativa e l’interpretazione delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza.

Per Di Lello, il pentito sarebbe credibile quando parla di incontri e attività criminali ma rassegna solo un punto di vista sul presunto progetto politico della “trattativa” e al suo racconto “si dà per scontato ciò che scontato non è”. Lo storico Salvatore Lupo, autore di vari libri sulla mafia, ha ricordato che Cosa nostra ha “sempre cercato rapporti con gli apparati statali”. Ma ne ha ricavato soprattutto sconfitte.

Secondo l’ex senatore Emanuele Macaluso, contatti tra mafia e pezzi dello Stato sono stati costanti in lunghi tratti della storia d’Italia. Ma spesso, come nell’immediato dopoguerra, sono stati mossi da scelte politiche. Alla fine lo Stato ha affermato la sua forza. E ora qual è stata, si è chiesto, la contropartita? Dall’inchiesta della Procura non si ricava in modo chiaro. “Emerge invece – ha sottolineato – una responsabilità della politica che ha delegato totalmente alla magistratura la lotta alla mafia”.


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