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Le aziende del Sud possono ricostruire la nuova Libia
23 Ago 2013 08:56

A fine 2008 le relazioni tra Europa e Libia avevano ricevuto nuovo slancio, con l’avvio dei negoziati per un Accordo quadro – che avrebbe dovuto prevedere una cooperazione più approfondita in una serie di settori tra cui energia, trasporti, ambiente, giustizia e affari interni, oltre a un accordo di libero scambio relativo a beni, servizi e investimenti – sospeso a febbraio 2011 in seguito allo scoppio delle rivolte.

L’Italia dovrebbe spingere per riavviare questo processo appena le condizioni politiche lo permetteranno, come osserva l’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, in un paper pubblicato a fine luglio.

La Libia, infatti, ha bisogno di nuovo patto sociale e di un vero processo di riconciliazione nazionale, e per le regioni del Mezzogiorno il paese può diventare un’occasione di investimento importante. Lo ha capito fin da subito il presidente della Sicilia Crocetta, che ha già incontrato le autorità libiche in più occasioni – ultima in ordine di tempo lo scorso 29 luglio insieme con il ministro per la Funzione Pubblica D’Alia – per valutare la possibilità che imprese siciliane e Pa operino in Libia al servizio della ricostruzione.

L’Italia, del resto, è il paese della Ue che ha maggior esperienza in Libia e gode di buona reputazione per la capacità avuta negli ultimi sessant’anni di ricreare un clima di amicizia che ci ha ampiamente favoriti anche sul piano commerciale.

Il presidente statunitense Barack Obama ha chiesto al presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, che l’Italia assuma un ruolo di primo piano nella stabilizzazione del paese: una sorta d’investitura che pare superare i malintesi tra i due paesi relativi alla posizione italiana durante la guerra di Libia del 2011 e il mancato ringraziamento all’Italia per la partecipazione alle operazioni militari. Al G8 del 18 giugno scorso, tenutosi a Lough Erne in Irlanda del Nord, sono state abbozzate le linee guida di un possibile intervento occidentale, coordinato dall’Italia, centrato in particolare sulla formazione per alcune migliaia di poliziotti e militari (15 mila complessivi) in diversi paesi (Italia, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania).

L’Italia dovrebbe ospitare circa 5.000 libici in Sicilia e Sardegna. Inoltre dovrebbe concentrarsi nell’institution building, a partire dai codici civili e penali, sino alla formazione e alle tecnologie per il controllo delle frontiere.

L’incontro bilaterale tenutosi a Roma il 4 luglio fra il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e il premier libico Ali Zeidan, è sembrato un prosieguo dell’“incarico” affidato all’Italia in occasione del G8. La stabilità della Libia e dell’intera area resta quindi un’altissima priorità della politica estera italiana.

La richiesta statunitense di «dare una mano in Libia», secondo l’amichevole espressione usata da Obama, indica proprio la necessità che l’Italia torni a occuparsi di un paese con il quale ha vantato spesso una relazione privilegiata, oltre che una contiguità geografica. Obama, infatti, è preoccupato che ulteriori disordini e attentati espongano alle critiche dei repubblicani la sua amministrazione, come successe con Hillary Clinton, accusata di aver sottostimato i pericoli che hanno portato alla morte dell’ambasciatore Stevens e di aver cercato poi di coprire l’errore.


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