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Il caso Moro e il tradimento della Costituzione
12 Set 2013 07:49

Sono trascorsi trentacinque anni dalla morte di Aldo Moro e la pubblicistica relativa al suo caso, che Leonardo Sciascia con una meravigliosa intuizione definì “L’affaire Moro”, continua ad essere ricca. Lacerti di verità che si aggiungono alle tessere di un puzzle che non si riesce a completare, ma che consentono di costruire una visione d’insieme sempre più vicina a una ricostruzione fedele di ciò che accadde nella primavera del 1978 in Italia. Punti fermi, corrispondenze e conferme che non potranno certo restituire giustizia, ma che consentono di avvicinarci alla verità.
Aldo Moro è stata la vittima sacrificale di uno stato debole e non autonomo, la vittima prescelta per impedire che si giungesse a un nuovo equilibrio politico internazionale non fondato esclusivamente sulla contrapposizione USA/URSS.

La vittima prescelta perché, «il meno implicato di tutti» aveva ipotizzato, per l’Italia, un accordo di governo stabile con Enrico Berlinguer, il leader del più grande partito comunista d’Occidente.
Per evitare che ciò accadesse, così com’era già successo in altre parti del mondo, poteri paralleli e semiocculti dello Stato si misero in azione e centrarono l’obiettivo che si erano prefissi.

L’uccisione di Moro rappresenta per queste forze il punto più alto del loro successo politico e contestualmente l’inizio della fine delle Brigate rosse. Fin troppo semplice collegare anche materialmente i due accadimenti.

Aldo Moro paga con la vita il “dettato” non scritto dal suo stesso partito, la Democrazia Cristiana: impedire la legittimazione del PCI e la sua ascesa al governo del Paese. Un patto non scritto e contenuto nel pacchetto “all inclusive” che gli americani avevano offerto all’Italia per liberarla dal nazismo nell’immediato dopoguerra e dai comunisti in un tempo altro, comunque vicino. Quegli stessi comunisti che, insieme alla “meglio gioventù” che l’Italia abbia mai avuto, avevano contribuito in maniera determinante alla Resistenza per liberare il Paese dal nazismo e dal fascismo.

Pur di non dare piena legittimità al PCI di Enrico Berlinguer, la Democrazia Cristiana, con i suoi uomini più potenti in quel momento, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, legittimò i fascisti e i «cloni» dei fascisti che erano, in quel momento, ai vertici delle gerarchie militari e dei servizi segreti italiani. Esponenti di una destra reazionaria che per primi auspicavano la morte di Aldo Moro e che anche gli Stati Uniti mal sopportavano.

Quando Aldo Moro fu rapito, il 16 marzo del 1978, nessuna delle parti in causa era preparata per quell’evento. Non lo era Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti, che non aveva nessuna strategia tantomeno un piano per fronteggiare la situazione. Non lo erano le Brigate rosse che si dimostrarono incapaci di gestire politicamente il rapimento prima e l’omicidio successivamente.

E rileggendo le lettere che lo statista democristiano scrisse dalla sua prigionia, si potrebbe concludere che Aldo Moro fu ucciso per l’incapacità manifesta della classe dirigente del suo partito e per l’incapacità a comprendere il contesto politico da parte delle Brigate rosse. E dunque si può sostenere la tesi che colui che fu definito da Cossiga come incapace di «manifestare liberamente la propria volontà» fu, al contrario, il più lucido di tutti fino alla fine dei suoi giorni.

Un ruolo di primaria importanza fu l’azione di lobby esercitata dalla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, soprattutto se si considera che suoi uomini rivestivano ruoli chiave nelle forze armate e nei servizi segreti italiani. Gelli, infatti, considerava Aldo Moro il «nemico assoluto» per il suo progetto politico e di nuova società.

E furono proprio i servizi segreti che organizzarono, su indicazione del Comitato di Crisi presieduto da Cossiga, la notizia della morte di Moro con il falso comunicato n° 7, più noto come quello del Lago della Duchessa. Comunicato che conteneva indicazioni precise rivolte direttamente ai brigatisti così come rivelato da Steve Pieczenik ad Emmanuel Amara (in “Abbiamo ucciso Aldo Moro”). «È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a far scattare la trappola tesa alle Brigate rosse. Abbandonare Aldo Moro e fare in modo che morisse con le sue rivelazioni. Per giunta, i carabinieri e i servizi di sicurezza non lo trovavano, o non volevano trovarlo».

I brigatisti in questo lungo braccio di ferro, disorientati dalla cifra politica e umana di Aldo Moro, sono incapaci di reagire e l’unica azione che riescono ad organizzare è una telefonata alla famiglia del leader democristiano. Un modo per rendere esplicita la loro disponibilità, in quel momento e nelle condizioni che si erano determinate, a trattare fino in fondo per la liberazione del prigioniero.

Una richiesta di collaborazione e insieme una via di uscita da quel tunnel senza uscita che avevano imboccato con il rapimento dell’uomo politico più importante d’Italia. Nessuno però raccolse quella richiesta e quel timido e goffo tentativo di salvare la vita di Aldo Moro.

«Cossiga aveva capito qual era la posta in gioco. Io non avevo contatti diretti con Andreotti, immagino fosse Cossiga a tenerlo informato. La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera, ne discutemmo molte volte, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. La decisione finale venne presa da Cossiga e, presumo, da Andreotti». È sempre Pieczenik, l’ex braccio destro di Kissinger, a parlare e a spiegare in maniera precisa e dettagliata ciò che avvenne in quei giorni.

E mentre fuori dall’edificio di via Montalcini la confusione regnava sovrana e si consumava un vero e proprio tradimento della Carta Costituzionale, Aldo Moro continuava a scrivere lettere ai suoi colleghi politici e alla sua famiglia.

Uno degli ultimi pensieri di Aldo Moro in vita è indirizzato a sua moglie, Eleonora, «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Una domanda alla quale non siamo in grado di rispondere, non sono in grado di rispondere. Possiamo però non spegnere l’attenzione su ciò che è successo e continuare a cercare la verità, perché solo se un popolo fa i conti con la propria storia e con la verità è in grado, eventualmente, di riscattare momenti bui collettivi. A questo proposito le parole scritte da uno dei pochi intellettuali che il nostro Paese ha avuto nel Novecento, Pier Paolo Pasolini, sono come sempre illuminanti.

«Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili. Imparerebbero che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale». Pensieri del 1975 e contenuti in “Scritti corsari” che aiutano a comprendere come affrontare e vincere «veleni antichi» e «metastasi invincibili».

Non so se dopo ci sarà luce, so però che ognuno di noi ha il dovere etico e morale di lavorare alla ricerca della verità. Ognuno per quello che può e che sa. Perché ora e adesso «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».


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