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Un giallo pirandelliano nella terra di Sicilia
03 Set 2013 12:08

”Diceva Einstein: è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. Intorno a questa citazione di uno degli avvocati difensori di Salvatore Gallo, presunto assassino del fratello Paolo, si dipana la storia pirandelliana di uno dei più clamorosi errori giudiziari del dopoguerra ripresa in questo romanzo, fresco vincitore del premio Viareggio per la narrativa.

Fra pregiudizi e indizi, realtà e apparenza, chiacchiere e silenzi, rivelazioni e colpi di scena, una miriade di personaggi e comparse si muovono nell’orchestrazione narrativa, pur nell’andamento giornalistico, sapiente e appassionata dell’autore, Paolo di Stefano, che sembra rivivere quella vicenda avvenuta fra i dirupi di Avola in, Sicilia, di cui è originario, e le piazze di Siracusa, in un percorso geografico dell’anima e della cronaca che si spinge fino a Ragusa, Catania e Noto, per arrivare all’isola di Santo Stefano, nelle viscere dello storico, terribile carcere.

La vicenda, che si lega ad un fatto di cronaca vera, narrato come un giallo e tinto di mille sfumature – dal colore locale-dialettale al contesto storico-sociale di quegli anni e di quei luoghi, fino alla perfetta delineazione dei personaggi e delle loro voci – inizia in un mattino piovoso d’autunno, il 6 ottobre 1954, quando il contadino analfabeta Salvatore Gallo, terrigno e sanguigno, con due piccoli occhi ravvicinati, denuncia la scomparsa del fratello Paolo, mite e gracile: i due fratelli vivono ”separati in casa’‘ nella stessa masseria, in contrada Cappellani, ma litigano quotidianamente e coinvolgono nell’odio le loro famiglie e anche i vicini.

L’incriminazione, allora, come spinta dal grido della presunta vedovau dissiru e u ficiru”, è scontata: quando le forze dell’ordine trovano sul posto due pietre e il berretto dello scomparso macchiati di sangue, con altro sangue introno, i sospetti si appuntano subito sul fratello, anche se del cadavere non v’è traccia, neanche dopo perlustrazioni accurate tra case e per l’aspra campagna.

Inizia così per Salvatore Gallo un’odissea di anni, fra interrogatori e sofferenze, testimonianze e ritrattazioni, fino al processo che lo condanna all’ergastolo e all’appello, che confermerà la pena.

Intorno alla sua figura Christi, silenziosa e rude, come scolpita nella pietra lavica, da cui trasudano gocce di sofferenza, si muovono i figli ”picciriddi” ma non troppo (il più grande, Sebastiano, incriminato anche lui per complicità), gli altri fratelli Gallo (due emigrati all’estero, che finanziano la difesa), gli avvocati cittadini e di chiara fama, e le donne: Venerina Costa, detta la Masudda, promessa sposa del presunto colpevole, vedovo da tempo, e Cristina Giannone, moglie dello scomparso e velenosa, feroce accusatrice di Salvatore.

Insieme a loro, una folla di comparse danno voce e spessore alla vicenda o rimangono intrappolate nel suo magma: dai giudici al maresciallo Luminoso, che per primo segue le indagini; dai ”viddani” con la coppola che testimoniano di aver visto Paolo vivo aggirarsi nei dintorni, ma poi ritrattano per paura, ai compagni di cella di Salvatore; dal secondino pietoso al direttore ”illuminato” di Santo Stefano.

E la vicenda pirandelliana del morto-vivo di Avola, narrata con sapiente di asciuttezza e profondità analitica, vive del quadro generale, del gioco corale di voci e persone, che intrecciano le loro vite con la grande storia italiana di quegli anni (la modernizzazione, il boom economico, l’avvento della tv) in cui la Sicilia appare un mondo e un’epoca a sé stante.

Fino alle pagine finali, in cui qualcosa si muove: un avvocato (ex combattente della resistenza) e un giornalista d’assalto decidono di affondare le mani nel magma e i silenzi cominciano a sciogliersi in parole, finché lo scomparso riaffiora come un’ombra, che acquista contorni sempre più netti.


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