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Innovazione e umanesimo in Italia. Quando c’era Olivetti
05 Nov 2013 07:47

Scrivo queste righe a poche ore dalla fine della fiction di RaiUno “Adriano Olivetti. La forza di un sogno”, un po’perché mi ha sempre affascinato la figura dell’imprenditore piemontese e un po’ perché la fiction mi ha stimolato un paio di idee.

La fiction: retorica e “umanità” al servizio di una figura che aveva bisogno di essere spiegata

Devo confessare di essere un po’ deluso. La sceneggiatura ha indugiato troppo sull’aspetto umano-sentimentale, a scapito di altri aspetti. Non che Olivetti non fosse persona di straordinaria umanità, ma semplicemente lui era molto di più del suo privato. Amori, passioni, gesti eroici possono essere interessanti per dare profondità alla vita di un uomo illustre, ma questo vale quando c’è una memoria collettiva che attualizza le sue figure chiave, mentre su Olivetti questa memoria attualizzata non c’è. Ho fatto un piccolo esperimento con i miei studenti chiedendo loro chi fosse Olivetti: risposte generiche che ora citavano macchine da scrivere ora computer ante litteram. La Lettera 22 è una macchina da scrivere come lo Stradivari è uno strumento musicale. La Lettera 22 è un tale concentrato di tecnologia e design ed etica come pochi altri oggetti del periodo (per esempio: la Vespa). Non è un caso che il MoMa di New York avesse deciso di esporla come capolavoro del design di quegli anni. Democratizzare la tecnologia attraverso funzionalità e bellezza è stato l’imperativo categorico del Bauhaus, obiettivo raggiunto da Olivetti e linea guida di Steve Jobs. Su questi temi la fiction glissa, insistendo sulla storia d’amore, le resistenze politiche, la spy story americana e il progetto utopistico delle comunità. Anche la narrazione sulla componente imprenditoriale è ridotta a semplice negoziazione con la famiglia e il consiglio di amministrazione: troppi stereotipi per descrivere Olivetti, un imprenditore nel senso classico di colui che fa del cambiamento (innovazione) e del futuro (strategia) la sua linfa vitale. Interessanti – in questo senso – i monologhi su futuro e visione, anche se a mio parere eccessivamente retorici.

Cosa resta di Olivetti: un modello imprenditoriale di ispirazione federiciana-rinascimentale

Tra le varie cose tratteggiate sbrigativamente sullo sfondo nella fiction, c’è l’idea profondamente contemporanea di Adriano Olivetti che produrre beni e servizi è qualcosa di troppo importante da essere lasciato ai tecnici del flusso di cassa o dell’organizzazione razionale del lavoro. La necessità di avere intorno a se intellettuali, artisti, scienziati sociali, poeti pur essendo una fissazione di Olivetti, ha delle solidissime basi nel ruolo giocato dall’impresa a partire dal dopoguerra. Le imprese fagocitando uomini e tempo della società, non sono solo attori economici, sono attori culturali e hanno la responsabilità di dare la propria impronta al periodo in cui operano. Solo in questo modo fatturano, solo in questo modo innovano, solo in questo modo esprimono lo Zeitgeist. Il ragionamento è piuttosto semplice: la società capitalistica del dopoguerra è una società di merci, siano essi beni o servizi. Consumismo lo chiamava la critica marxista, consumerismo viene chiamato dalla sociologia contemporanea, ma l’idea è quella: compriamo oggetti che servono nella nostra vita quotidiana e la dominano. Perché gli oggetti abbiano un senso che vada al di là del mero valore di scambio, devono avere una loro personalità e la personalità è frutto di un progetto culturale. Assegnare un nome a un prodotto, dare una forma ad un oggetto, immaginare un utilizzatore di una tecnologia sono attività tradizionalmente compito del marketing, ma sono nate copiando il ruolo delle “cose” nei periodi storici ad alta intensità di creatività. Il concetto di impresa totale di Olivetti è frutto – suo malgrado – di due modelli storici profondamente italiani. Il primo è la corte di Federico II di Svevia, fior fiore dell’intellighenzia del medioevo. La specificità culturale del periodo federiciano è la commistione fra cultura occidentale (greca e latina) e cultura orientale (araba ed ebraica) che ha dato vita a oggetti straordinari. L’esempio principe è la ricorrenza ottagonale di Castel del Monte in Puglia: un prodotto architettonico troppo moderno persino per la nostra contemporaneità. Il secondo modello è il Rinascimento che con l’ideologia neoplatonica in cui l’uomo è centro dell’universo mescolava filosofia e technè, innovazione tecnologica e umanesimo. Esempio principe in questo caso è la prospettiva di Brunelleschi: costrutto artistico contemporaneamente matematico, estetico e design. A questo filone appartiene l’idea di oggetto dei prodotti di Olivetti. Come la Lettera 22, democratizzazione della scrittura meccanica che metteva l’utente al centro del prodotto, come aveva fatto il Rinascimento con la prospettiva. Oppure il mainframe ELEA, primo computer modernamente concepito frutto di un team italiano guidato da un Italo-cinese, Mario Tchou, come gli intellettuali tra occidente e oriente della corte di Federico II di Svevia.
In questo nostro mondo dominato dalla tecnologia elettronica guardiamo con ammirazione ai prodotti di Apple, ai servizi di Amazon, ai modelli imprenditoriali come Facebook e Google, e non ci accorgiamo che visti in prospettiva altro non sono che l’attualizzazione di un nostro patrimonio intellettuale: produrre sapere attraverso la bellezza.

Patrimonio che apparteneva ad Adriano Olivetti e che si sono perse, citando le parole di un replicante modello Nexus 6, “come lacrime nella pioggia”. O forse non sono perse: solo quiescenti in attesa di essere riscoperte.


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