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Il diritto negato agli studenti di poter studiare al Sud
12 Dic 2013 07:37

Nel mondo universitario la parola d’ordine delle ultime settimane è stata Sud.

Anche per quest’anno, le Università italiane potranno effettuare turn over (assumere nuovo personale) soltanto nel limite del 20 per cento dei pensionamenti a livello nazionale. Tuttavia, ogni singolo Ateneo non avrà un 20 per cento fisso, ma un valore che viene ricavato attraverso i cosiddetti “punti organico”, punteggio stabilito sulla base di un indicatore che tiene in considerazione l’ammontare delle tasse degli studenti.

La contribuzione studentesca è mediamente più bassa nel Mezzogiorno. In primo luogo per le condizioni socio-economiche del nostro territorio rispetto a quelle del resto del Paese: le rette sono collegate ai redditi e al Sud sono anche di più gli studenti che hanno diritto ad esenzioni totali o parziali. In secondo luogo, perché essendo bassa l’appetibilità da parte degli studenti per la nota questione meridionale, i nostri Atenei hanno tenuto le tasse più basse nel corso degli anni.

La morale è stata che il nuovo decreto di ripartizione dei punti organico della Ministra Carrozza, avendo anche eliminato una clausola di equilibrio prevista del decreto del 2012, ha penalizzato la stragrande maggioranza delle Università meridionali, quasi tutte con un turn over ben al di sotto del 20 per cento. Studenti, docenti, rettori e addetti ai lavori hanno segnalato tale situazione con articoli, dichiarazioni, comunicati, proteste ed incontri ma l’appello è caduto nel vuoto. La promessa è stata che per il 2014 verranno adottati nuovi criteri. Bene, ma viene da chiedere come mai, avendo riconosciuto la legittimità e la giustezza della questione, non si è operato già eliminando la sperequazione prevista attualmente per l’anno 2013? Considerando, soprattutto, che lo si può fare inserendo un “articoletto” o un “commetto” nella legge di Stabilità?

Qualcuno diceva “fatti una domanda e datti una risposta”. Ma, piuttosto, è interessante notare come finalmente ci sia stato un movimento di opinione e di riflessione sull’Università e sul Mezzogiorno. E come questo accostamento di termini e di concetti riesca ad accarezzare la coscienza di chi ha ancora la voglia di credere in un risveglio culturale e sociale.

L’Università pubblica nel nostro Paese ha avuto il merito di essere un importante fattore di mobilità sociale ed economica, probabilmente il più incisivo. Oggi, avendo in parte esaurito questa sua capacità di ascensore, il sistema universitario italiano sta finendo col diventare un ulteriore elemento di squilibrio territoriale. Troppi giovani meridionali scelgono di lasciare casa e andare a studiare al Nord, per poi rimanervi a lavorare e realizzarsi, nella migliore delle ipotesi, quando cioè si può evitare l’emigrazione all’estero. Il problema vero è che spesso questa non è una scelta, ma l’amara considerazione che nel Mezzogiorno non solo non c’è lavoro, ma mancano anche servizi, Diritto allo Studio, trasporti e tutte quelle cose che contano nella scelta del luogo in cui studiare. In breve, futuro.

Di certo le istituzioni locali potrebbero fare di più per trattenere i propri giovani, ma è anche vero che fino ad oggi è stato dimenticato con troppa facilità che lo Stato non ha ancora colmato il ritardo economico ed infrastrutturale del Sud.

E così, pian piano, insieme al sempre più inesorabile scarseggiare delle risorse, anche nel mondo dell’Università si sono commessi una serie di errori. Si è creato un sistema di Diritto allo Studio regionale, non nella gestione ma nella spesa, con il risultato che le regioni meridionali non riescono a garantire la stessa copertura di borse di quelle del Nord. Si sono staccati completamente i percorsi triennali da quelli biennali, incentivando la fuga degli studenti del Sud nei percorsi specialistici, quindi più vicini al mondo del lavoro. In ultimo, prima della questione punti organico, si è investito su borse di mobilità interregionale, erodendo il fondo di finanziamento ordinario e “ignorando” il flusso di mobilità già esistente.

Altro capitolo che meriterebbe un approfondimento è la valutazione. Il meccanismo messo in piedi è già di per sé discutibile: l’Anvur, l’agenzia che si occupa della valutazione dell’Università, ha da più parti ricevuto critiche per il fatto di non essere realmente indipendente e di utilizzare criteri rivedibili (tesi avallate anche dall’associazione europea delle agenzie di valutazione, l’Enqa). Le Università andrebbero valutate rispetto a parametri oggettivi e che tengano delle differenze preesistenti mentre, invece, si preferisce valutare tra l’altro la capacità di ottenere finanziamenti esterni, quando si dovrebbe partire da un piano straordinario di investimenti in cui successivamente inserire una valutazione seria e non discriminante.

In sintesi, si è creato un sistema competitivo in cui il Mezzogiorno è destinato ad essere sconfitto per il semplice fatto di non partire alla pari con il resto del Paese e il cui risultato è il drenaggio di risorse dal Sud verso il Nord.

Il fatto più grave è che la questione meridionale viene spesso derubricata come una tematica territoriale, quando dovrebbe essere interesse di tutti risolvere i problemi e i ritardi di una parte del Paese. Tanta responsabilità hanno la politica e le classi dirigenti meridionali, come le Università che male hanno interpretato ed attuato l’autonomia, ma sarebbe anche ora di ricominciare a parlare in modo serio di Mezzogiorno e sarebbe anche molto bello se ciò potesse avvenire partendo dal mondo universitario, proprio come avvenuto nelle ultime settimane.

Gli studenti meridionali oggi dicono “vogliamo restare”. Il dovere di una comunità civile è ascoltare chi chiede soltanto la possibilità di poter scegliere. è una questione di giustizia e libertà.


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