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Non sono mai soli i vecchi soli dei Quartieri Spagnoli
20 Apr 2014 08:10

Nicola ha 75 anni, vive da solo in un vicolo dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Abita un basso. Una di quelle tipiche abitazioni dei vichi interni, quelli più bui, del cuore antico della città. Si socchiudono come botole anomale, ferite nei muri, ci entri di lato, ma poi dentro si apre un mondo. Si sale su soppalchi fantasiosi e si scende nelle viscere, in scantinati che diventano camere da letto, o salottini.

Nicola abita in uno di questi bassi. E’ solo. Aveva una moglie. Morta di tumore sei anni fa. Niente figli, niente nipoti. Ha un cane, però. Piccolo e rabbioso. E uno scooter nero 125, parcheggiato davanti alla porta, quasi sempre fermo. Nicola, al massimo, lo prende, senza casco, per fare duecento metri e scendere dal tabaccaio. E poi risalire. Il resto lo passa seduto su una sedia di paglia fuori del basso, sulla stradina di polvere e cicche. Osserva, parla, saluta.

Tutto questo succede a cento metri dal Maschio Angioino, dietro il fiume agitato di via Toledo, a trecento dal Municipio di Napoli, a pochi passi da piazza Plebiscito, e dal mare. Ma qui sopra, oltre quel garigliano, sembra un piccolo borgo antico. Quasi un paese di montagna. Nicola è solo ma non se ne accorge mai. Nel basso di fronte vive un’altra vedova, la signora Maria. Ha due figli che abitano nel vicolo accanto. Stanno da lei tutti i giorni. Ma sopra le teste di Nicola e Maria svettano due palazzi altissimi, pieni di gente che brulica dietro le finestre, che rumoreggia, si agita, scende, sale, e si placa solo verso l’alba. Una folla compressa e rumorosa che però non ti lascia mai solo.

Nicola quando si è ammalato di bronchite aveva la fila fuori del basso. Ogni cinque minuti qualcuno gli chiedeva come stava. Uno gli ha portato le medicine, la signora di sopra gli ha fatto il brodino vegetale. Quando la signora Maria si è rotta la caviglia scivolando sui basoli bagnati, ed era ferma col gesso sulla poltrona, aveva costantemente almeno tre persone in casa, perchè non si doveva annoiare. Si fecero le turnazioni per farle compagnia. Stamattina, poi, nella febbre di festa della Pasqua, che eccita i vichi come quasi niente altro, qui volano pastiere. In genere sale un odore di candeggina da panni stesi. Ma oggi, vigilia di pasqua, si sente solo il ronzio dei forni accesi e si impasta nell’aria un sapore di uova, zucchero, farina, cannella, grano.

A Nicola, che guardo dalla mia finestra – ci salutiamo sempre con la mano, sono uno di quelli del palazzo sulla sua testa – sono già arrivate due fette di pastiera. La signora Maria ha scambiato un suo casatiello (una torta rustica della tradizione pasquale napoletana, un piombo di salumi, formaggi, strutto, pane) con quello del basso accanto. Saettano ruoti nei vicoli, stamattina. C’è uno scambio di dolci, doni, assaggi, fette di qualunque cosa. Ognuno ne offre uno spiccio, un assaggio, un morso. E nessuno, soprattutto, lascia soli i vecchi soli. E’ il welfare del vico. La catena solidale della prossimità. Lo Stato sociale della pancia napoletana, che è grande, rumorosa, a volte acida, ma accogliente come una mamma. Guardarla oggi, negli occhi di festa di Nicola, che è solo ma non è solo, commuove.


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