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Partire o restare in Sicilia. In attesa della rigenerazione
25 Set 2014 08:59

C’è un libro di Antonio Calabrò: “Cuore di Cactus”, pubblicato da Sellerio.

Uno di quei libri che innescano ragionamenti in sequenza, come nel principio del domino. Si tratta di partire o restare, nella speciale versione del dilemma che riguarda tutti coloro che sono nati in Sicilia.

La questione è molto vexata, al punto di diventare un genere letterario a se stante.

Nessun siciliano intelligente può pensare che la sua scelta, a prescindere da quale, sia la più giusta in assoluto.

E del resto entrambe le fazioni – siciliani di scoglio e siciliani di mare aperto, secondo una vecchia definizione – nutrono ciascuna dubbi, rimpianti e ripensamenti. Esiste tuttavia una specificità tutta isolana, che si è acuita negli ultimi anni, e che rende l’esperienza dell’emigrazione, intellettuale o meno, ancora più frustrante.

Il Nord Italia si è ormai sicilianizzato e, salvo eccezioni, lo scenario culturale e occupazionale risulta ugualmente depresso da un capo all’altro del Paese. Scappare non basta più. Bisogna scappare molto lontano.

Oppure restare e piegarsi alle peggiori logiche. Nascere in Sicilia rimane una condanna. Felice il condannato cui è dato scegliere fra esilio ed ergastolo.

Ogni ondata di emigrazione segue sempre una stagione di grandi speranze dissipate.

A partire sono ogni volta quelli che si erano illusi, quelli che si erano battuti. I migliori.

Viceversa, tendono a restare quelli che si piegano, che si accontentano.

E ogni volta la Sicilia futura si modella di conseguenza.

La scrematura dei siciliani migliori fa sì che per rigenerare una nuova ondata di speranze bisogna sempre aspettare il ricambio generazionale.

L’ultima migrazione-scrematura avvenne all’indomani dell’insurrezione morale susseguente alle stragi del ’92. Oltre vent’anni fa.

C’è di buono che ormai non dovrebbe mancare molto.


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