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Le strade dell’inferno
22 Dic 2014 09:00

Per andare verso una città necessitano sessanta chilometri. Non era una buona prospettiva. Ma riusciva a peggiorare. Erano sessanta chilometri di curve. E riusciva ancora a peggiorare.

Per rendersi conto di tale asperità, bastava percorrere una delle tante strade dell’Appennino meridionale. E per darvi un’idea di cosa fosse un piccolo viaggio in certo Sud, vi racconto di un episodio occorso ad uno studente nell’autunno del 1984.

L’autobus del suo paese partiva per il capoluogo di provincia, ogni mattina, alle 5.30. Il comune era di circa seimila abitanti e già alle 5.00 più di quaranta di essi erano sulla piazza nei  pressi all’automezzo, un Kässboher Setra. Trattavasi di mezzo di trasporto mastodontico, modernissimo, capiente.

L’autista aprì le porte e fece accomodare sui comodi sedili.

Gli utenti erano maggiormente studenti, per il resto uomini e donne di mezza età diretti a far faccende burocratiche.

Si parte.

La strada principiava con una imponente curva a gomito, poi seguita da una curvetta dal lato opposto e poi nuova svolta. Nove chilometri di curve serrate, conosciute a mena dito dal veterano autista che faceva calzare al centimetro il grande automezzo, prevedendo le altre eventuali auto in direzione opposta leggendo i fasci di luce.

Dopo tali chilometri compare un ponte. Ma davvero piccolo, per essere definito tale. Il Setra lo occupava quasi tutto. La corsa continuava. Una corsa verso il basso, ovvero il fondovalle percorso da un fiume che l’aveva scavato.

Le curve erano diventate meno insidiose e permettevano un passo più veloce.

Dopo un falsopiano si arrivava ad un paese. Poche anime aspettavano di salire e la fermata fu breve. Ma permise ad un refolo di vento gelido d’incunearsi all’interno, giusto per rimembrare il clima.

Di nuovo in moto, di nuovo tra le curve, ma a complicare il cammino vi fu la strada, diventata dissestata e con soventi buche.

Il veterano autista, riusciva a scansarle con manovre dolci. Ma il risultato cambiava di poco. Poi iniziò la salita.

Aveva nevicato da pochi giorni, il fondo era lievemente ghiacciato, il bestione di dodici metri iniziò a manifestare problemi di aderenza.

Lo studente che mi ha raccontato il viaggio, mi disse che sulle prime non pensava che ci fossero problemi particolari. Non aveva percorso quella strada in autobus, ma sempre in auto e la conosceva bene. Invece il ghiaccio iniziò ad ispessirsi e l’autobus perse aderenza con le ruote.

Il veterano autista si accorse che l’ennesima curva a gomito sarebbe stata proibitiva, ed a settecento metri di altezza, sul far delle sei, con ancora tutto buio, con un vento gelido, chiese ai circa cinquanta passeggeri di scendere.

Voleva affrontare la manovra da solo. Gli utenti dovevano raggiungere il mezzo a circa cento metri più in su.

I passeggeri scesero. Ma non si mossero. Rimasero esposti alle raffiche di vento per assistere al buon fine del tentativo.

Ma il Setra non riusciva a salire, a metà curva scivolava verso il basso, si poneva di traverso, guadagnava il dritto per poi ripartire.

Surreale. Un automezzo da attuali quattrocentomila euro che danzava pericolosamente sul ghiaccio. Con cinquanta involontari spettatori che guardavano la scena immobili.

Lo studente domandò qualche sensazione, ma capì che quello spettacolo infausto non era inusitato.

Erano gli anni ’80, non vi erano telefoni cellulari, il paesino era a dieci chilometri, c’era la prospettiva di tornare indietro. Eppure il veterano al decimo testardo tentativo, riuscì a compiere la curva, il manipolo di passeggeri infreddoliti ed alcuni ghiacciati, riuscirono a salire a bordo e il viaggio riprese.

Le curve, le buche, la nebbia, il ghiaccio, il nevischio, il buio, i guard rail che riparavano da strapiombi di cento metri, un autobus interminabile, l’impossibilità di comunicare, la solitudine, la montagna da dover oltrepassare, con il picco a più di mille metri.

L’autobus, riuscì ad arrivare in luogo protetto. Un paese a venti chilometri dal capoluogo, dove la strada si allargava, l’asfalto era clemente, la vegetazione accompagnava un percorso di bassa collina.

Era fatta. Quaranta chilometri: due ore.

Questo episodio rappresenta un pezzo di Sud, vissuto ogni mattina dalle migliaia di pendolari, sopratutto studenti di secondaria, che devono raggiungere i capoluoghi, da certi paesi incastrati sugli Appennini.

Dopo trent’anni le cose sono di poco migliorate.

A Roma si festeggia la terza linea della metropolitana. E alle cinque di mattina, a qualche centinaio di chilometri, c’è ancora chi parte dovendo affidarsi involontariamente all’avventura.

Ma forse per questo “stile” di vita, dopo un decennio di peripezie, si forgiano individui più forti. Che quando vanno a vivere nelle città, vedono un mondo d’imbranati allo sbaraglio.

La sensazione non è pregiudizievole. E’ solo una costatazione, di noi del Sud.


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