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L’uomo al quale riuscì quasi tutto
05 Gen 2015 09:40

Lo chiamavano in paese Marfi, perché così si era auto-appellato come dj, in un’epoca in cui il dj era misconosciuto.

1979, piena Basilicata, lontano dal mare, prossimi ai declivi. Michel Jakson componeva il primo successo, Gloria Gaynor si era già affermata. Il mixer era pena apparso, accompagnato dalle luci psichedeliche. Le feste tra ragazzi iniziavano a colorarsi del riverbero di Saturday Nigtht Fever.

Gli riusciva tutto a Marfi, dalla capacità di miscelare i brani, al gioco del biliardo, del biliardino, del poker, alla capacità di conquistare le ragazze. Anche se bello non era.

Gli riusciva di guidare bene la moto e ne aveva una proprio gagliarda, anche se la sua famiglia era scevra di ricchezza. Ma le vincite ai vari giochi citati, fruttavano.

Sapeva anche giocare al calcio e menar le mani se richiesto e frequentava il liceo, pur non essendone all’altezza.

Indossava i guanti, in inverno, a volte in pelle a volte di lana. Ma sempre rigorosamente neri. Li portava mentre giocava a carte, tirava di biliardo, scalciava di biliardino e se c’era da tirare qualche pugno.

Non aveva una morale,  ma un senso di giustizia. E la sua capacità di riuscire in tutto non provocava invidie e quasi passava inosservata.

Un tipo particolare, Marfi. Forgiato dal suo paese ma sempre con lo sguardo verso le mode e le terre lontane. Faceva spesso puntate a Milano, ospite di uno zio e tornava carico di idee e di cose interessanti. Anche negli abiti.

E quando terminò le superiori migrò a Potenza entrando nel gruppo di speaker di una radio libera molto ascoltata.

Non era molto bravo nel parlare, ma aveva la marcia in più del saper mixare, in un periodo in cui la Disco avanzava come un caterpillar.

In città le sue attenzioni erano concentrate sui modi di far soldi. Voleva comprare una Bmw in un’epoca in cui tale auto era privilegio di qualche affermato professionista.

Così si iscrisse ad una scuola di recupero ed in un biennio conseguì il diploma di geometra.

Motivo? Voleva dedicarsi alle costruzioni. Ma doveva far la gavetta e si mise a vendere appartamenti per conto di una ditta.

Era fenomenale. Piazzò un’intera palazzina a due famiglie. Vendette due casolari di campagna ristrutturati ed una villa fuori città. Il tutto in venti giorni.

Il proprietario lo passò di grado e divenne un factotum. Ottimo stipendio ed acquisto in leasing della Bmw impegnando la casa dei genitori, che gli permettevano tutto. Da sempre.

Tornava al paese nel fine settimana e tempo un anno vi aprì: un bar, un negozio di dischi, una libreria. Una diversificazione incredibile in un posto in cui si passava lo stesso lavoro di padre in figlio.

Era la metà degli anni ’80, tempo in cui gli italiani si erano illusi di vivere in una nazione ricca. Il macellaio del paese, dopo la casa al mare, aveva comprato la casa in montagna. Vedeva i suoi incassi salire. Ma era solo il frutto del debito pubblico che s’ingrossava e tutti a votar il pentapartito.

Marfi aveva cambiato la Bmw per una Maserati Biturbo usata, ma come nuova. Essa rombava e consumava benzina in maniera indecente, ma lui aveva costruito le prime case a Potenza e le aveva anche vendute. Con buon guadagno. Poi, previo prestito bancario, aggiunto ai soldi di alcuni amici, costruì il primo palazzo. Dopo due mesi aveva venduto sulla carta tutti i sedici immobili.

La sua Maserati era diventata una Porche, seppur sempre d’occasione, ma nuova.

Ormai in paese si parlava molto di lui. Il suo tramutar tutto in oro era diventato appannaggio di tutti e quando pubblicò una rivista di bella vita, tutti a comparne le copie. Proponeva l’improponibile, ma ognuno voleva conoscere la strada del successo ed era rapito da quelle foto di yacht e yachting club.

Un giorno a Marfi venne una fulminazione. Era il tempo dell’elettronica, dei radioni della break dance, dei Pioner nelle auto, dei televisori Nordmende. Decise di aprire una fabbrica di elettronica in paese. Una follia per il luogo in virtù dell’epoca.

Ma lui, che sapeva fare le cose solo in grande, chiamò dal Giappone un paio d’ingegneri elettronici e costruì un grande capannone in periferia.

Prima assunse dieci operai e li fece specializzare dai nipponici. Poi venti, trenta, cinquanta.

Viaggiava per tutta l’Italia piazzando ai negozi le sue radio a basso costo, che nascevano nel pieno del Sud dell’Italia. Andava anche in Giappone, almeno una volta al mese. E la fabbrica cresceva in dimensioni.

In paese e terre limitrofe, c’era la fila nelle assunzioni. Tutti lasciavano il proprio lavoro e seguivano Marfi, che pagava bene e con qualche giorno d’anticipo, faceva feste ed elargiva regali non richiesti. Tutto nel suo perfetto stile.

Voleva comprare un elicottero. Così si diceva.

Passarono due anni. I dipendenti erano diventati circa 800, c’era anche un indotto.

In un epoca in cui l’impresa, nel Sud dell’entroterra, era ancora sconosciuta, la fabbrica di Marfie aveva anche i turni di notte. E produceva anche videocassette.

Ma ai suoi affari badava solo lui. Il suo commercialista era solo un invitato speciale. I conti li faceva Marfi e pensava solo come ingrandirsi.

Il problema però è che Marfi, tanto bravo nel riuscire in tutto, non aveva mai capito il segreto del suo successo.

Il fatto che gli riuscisse tutto di primo acchito, non gli aveva mai fatto capire le sue competenze.

Il motore del suo fare era la voglia sfrenata di essere il primo, il migliore. Ma il migliore del suo paese, dei suoi paesani, tanto che voleva assumerli tutti.

Il suo desiderio era: tutti sotto di me. Ciò che solitamente si realizzava con la politica, lui lo aveva realizzato con i soldi. Un’intera comunità asservita.

Il suo carattere sostanzialmente schivo aveva mascherato quella brama di potere. Ed a colpi di crescita economica il suo stile napoleonico iniziava a prendere contorni nitidi.

Quando trattava affari in Italia, se i suoi competitor erano mossi dagli utili, lui era spinto da un progetto di grandiosità. E ciò rendeva impossibile intuire le sue mosse. Molti non capivano certe scelte, lui nemmeno.

Ma nella vita, con gli occhi fissi solo sul proprio orto, prima o poi l’ondata di piena del fiume arriva.

E infatti i tempi cambiarono. Una nuova tecnologia soppiantò la precedente. Internet sconvolse il sistema.

Marfie recitava lo stesso spartito ma la musica era cambiata. Così aveva iniziato a stonare, a perdere colpi. Ma imperterrito continuava a pensare come crescere. Ed i suoi colleghi, di colpo, non videro più in lui un manager, ma un improvvisatore, un incosciente, un uomo fuori la realtà.

Nel cambio di passo, aveva continuato la sua marcia nella stessa direzione. E quando arrivi troppo in alto, ciò non ti è permesso.

Non convocò i sindacati, non fece riduzione di personale, non parlò con nessuno. Una mattina si alzò e licenziò l’intero paese.

Chiuse tutto in due giorni e andò a vivere da i suoi vecchi zii a Milano. Loro non avevano saputo nulla della sua scalata, della fabbrica, dei mille dipendenti. Erano anziani, non capivano nulla di queste cose. Per loro Marfi era il nipote che veniva dal paese a star un po’con loro.

Ci stette otto anni, passati a giocare a biliardo, biliardino e poker.

Una sera uno dei suoi amici del bar, che gli aveva insegnato a giocare a scacchi e lo aveva visto poi battere tutti, gli disse: “Ma lo sai che sei davvero bravo. Uno come te può far fortuna nella vita. Riesci in tutto”

“Già fatto” rispose. E  rimise i guanti neri prima di fare scacco al re.


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