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Giustino Fortunato, l’inventore della “questione meridionale”
28 Set 2015 09:15

In un’Europa dove il Socialismo si assottiglia riverberando la sua crisi sui partiti socialdemocratici e dando fiato alle destre xenofobe, gli esempi del passato diventano modelli da cui ripartire.

L’Italia dell’Unità ha avuto una generazione straordinaria di talenti, a metà strada tra la politica ed il mondo degli studi.

Essi hanno avuto l’argume per risolvere questioni “sospese” per secoli.

Un esempio di questa generazione è il gruppo di meridionalisti, che si sono fatti carico dei problemi legati alla fusione delle due Italie, quella del Sud e quella del Nord, che viaggiavano a diverse velocità.

Il Meridione deve tanto a Nitti, Fraschetti, Croce, Salvemini, Fortunato, Colayanni, Sonnino.

In particolare, Giustino Fortunato fu uomo di pratica e di azione. Dalla sua Rionero in Vulture, seppe coniugare la sua azienda agricola, o se volete: il suo latifondo, ad un’azione riformatrice volta a “ricostruire” la classe contadina.

Nel periodo post unitario, il Meridione era un mondo sconosciuto per un parlamento dove l’asse centrale risiedeva nella tradizione Sabauda. La classe contadina del Sud era un nodo cruciale da sciogliere. La riforma agraria un fattore fondamentale.

Fortunato diede i temi su cui lavorare, anche se inficiati dalla sua visione pessimistica sul buon fine dell’Unità.

Egli era nato da una famiglia filoborbonica, dove spiccava l’amicizia con Crocco Donatelli, il vero capo della rivolta partigiana, poi tramutatasi in brigantaggio, che vedeva in Rionero in Vulture la sua roccaforte.

Giustino, con il fratello Ernesto, seppe costruire un’azienda agricola, ovvero un modello di virtuosismo, lungimiranza ed umanità. Convinto che solo una moderna capacità produttiva dell’agricoltura potesse trarre il Sud fuori dalla spirale di abbrutimento sui era avviluppata da secoli.

Fortunato era un patriottico ed in parlamento e nella sua carriera di studioso, si batté per costruire una classe dirigente che capisse a fondo i problemi, per poi rendersi autrice di un autentico riformismo. Non importa se di destra o di sinistra.

Nella sua casa nobiliare di marchese, riunì un cenacolo di pensatori meridionalisti, volti ad incidere in anni cruciali per la costruzione della nazione.

A Roma, per risolvere il problema della malaria che falcidiava le terre del Sud, costituì un’associazione volta a cercare soluzioni e mezzi.

Con la sua azienda, fu il primo barone meridionale a comprare a sue spese ed a distribuire il chinino.  Inoltre si batté per un’azione di profilassi, onde prevenire un problema atavico.

L’essere soggetto attivo sul campo, lo pose nella condizione avvantaggiata di poter intendere i problemi del Sud. Viaggiò per questo molto, nelle terre meridionali, e seppe dare un quadro in parlamento, grazie a questa esperienza attiva che lo vedeva parte in causa.

Fortunato fu un antifascista della prima ora. Prima di Benedetto Croce, capì la pericolosità di quella che appariva come una rivoluzione.

Fortunato, dagli albori, definiva il fascismo una “rivelazione”, e quindi non una fugace comparsa come asserivano i suoi colleghi intellettuali. Per lui il movimento, fu dall’inizio: un’incredibile tragedia.

Egli intuì lucidamente come fosse la risultanza della debolezza della classe dirigente nazionale.

Solo dopo qualche anno Croce lo seguì nelle sue intuizioni e ciò deve far capire la natura straordinaria di Fortunato, il quale non conserva, in questa nazione, il lustro dovuto al suo ingegno.

Fortunato fu dunque uno studioso raffinato e, in tale veste, fece intendere ai suoi colleghi parlamentari quanto le condizioni morfologiche del Sud facevano da elemento ostativo dello sviluppo. E quanto molti dei suoi “peccati” nascevano da tale caratteristica.

Se nel giovane parlamento italiano si parlò per la prima volta di “questione meridionale” lo si deve a lui. E quindi alla sua opera di divulgatore e di storico che, con un grande potere narrativo, sapeva coniugare grandi questioni teoriche a piccole questioni pratiche.

Giustino Fortunato morì a Napoli il 23 luglio del 1932, lasciandoci in eredità un metodo e la sua opera infaticabile, senza la quale il Sud non sarebbe stato una “questione”, ma sospeso nel limbo delle tante pratiche da sbrigare, in una Italia affannata a costruirsi.


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