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“Veloce come il vento”. Intervista al regista Matteo Rovere
24 Mag 2016 08:35

Matteo Rovere è un giovane professionista del cinema, che ha fatto del suo sogno il suo lavoro. Ha cominciato come assistente volontario e filmmaker indipendente, realizzando cortometraggi e lavorando sui set. Poi piano piano ha cercato di confrontarsi con l’industria del cinema in Italia, creando un suo percorso personale in un settore della cultura davvero difficile. Ora è regista, sceneggiatore e produttore. Nel 2002 vince il Premio Kodak al Linea d’Ombra Salerno Film Festival con il suo primo cortometraggio “Lexotan”. Successivamente realizza i cortometraggi “Unconventional Toys”, “Sulla riva del lago” e “Homo Homini Lupus”, vincitore del Nastro d’Argento 2007, con Filippo Timi. Esordisce come regista di un lungometraggio nel 2008 con “Un gioco da ragazze” presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma. Nel 2010 gira “Gli sfiorati”, tratta dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, nelle sale nel 2012. Il film viene presentato in anteprima mondiale il 26 ottobre 2011 a Londra in occasione del British Film Institute Festival. Infine, per diverse settimane, abbiamo visto il suo ultimo film nelle sale, “Veloce come il vento”, un film ad alto tasso adrenalico, ma altrettanto conoscitore dei sentimenti più profondi.

indexSei stato nelle sale cinematografiche con “Veloce come il vento”. Com’è nata l’idea di fare questo film?

Avevo voglia di raccontare una storia di famiglia, di fratelli. Devo poi anche ammettere che in casa mia la passione per i motori  è sempre stata presente, i piloti hanno sempre esercitato su di me un grande fascino, le automobili pure, fin da piccolo. Forse è anche per questo che quando ho iniziato a sentir raccontare dal meccanico Tonino Dentini, a cui il film è dedicato, si è rafforzata la mia volontà di approfondirle e metterle in scena creando un mio racconto. Posso dirti che devo dire che mi divertiva profondamente l’idea di fare un film di macchine e di piloti dove i protagonisti, contro ogni consuetudine e facile previsione, sono un tossico ed una ragazza.

Perchè questo titolo?

Era importante individuare un titolo che potesse ben rappresentare e trasmettere lo spirito del film, in cui si racconta una storia di sentimenti profondi, istintivi, naturali come quelli familiari all’interno della cornice delle corse e delle automobili. “Veloce coem il vento” racchiude ed evoca queste due anime rimandandoci anche ad un senso di movimento e di inarrestabilità del corso degli eventi.

In questo film affronti il genere dal punto di vista dell’intrattenimento: inseguimenti, montaggio serrato. Quali sono stati i tuoi modelli?

I miei modelli sono stati quei film in cui il genere e l’azione sono a servizio di un racconto, di una storia e non fini a sè stessi. Posso citarti Days of Thunder , Rush ma anche Ronin è un film che ho “studiato” sotto molti aspetti, come l’inseguimento cittadino. Le sequenze di Frankenheimer sono come le nostre girate tutte dal vero, in maniera “analogica” con un utilizzo nullo o minimo degli effetti speciali digitali, in contro tendenza rispetto alle produzioni più recenti di film di auto.

Hai scelto come protagonisti di questa storia Stefano Accorsi e Matilda De Angelis che hanno sicuramente contribuito a rendere questo film un grande capolavoro. Posso chiederti perché proprio loro?

Il primo che mi ha suggerito di incontrare Stefano per il ruolo di Loris è stato Domenico Procacci con cui aveva fatto Radiofreccia, immagino che l’eco di quel personaggio si è riaffacciato nella sua testa quando ha letto la mia sceneggiatura. L’ho trovato un suggerimento interessante; già dai primi incontri con Accorsi ho capito che era la persona giusta, che aveva voglia di mettersi in gioco completamente non avendo paura di abbandonarsi a Loris, un personaggio estremo, difficile, anche rischioso per un attore. Per Matilda il discorso è diverso; volevo una ragazza che riportasse la spontaneità, la verità e la forza del personaggio che avevo in mente. Matilda era alla sua prima esperienza di recitazione, ma mi ha colpito subito per la sua naturalezza ed assenza di imbarazzo. Lei è una cantante abituata a mettersi in gioco e ad esibirsi su un palco, anche utilizzando una fisicità che era fondamentale per interpretare un pilota. Entrambi sono emiliano-romagnoli, e per me era chiarissimo fin da subito che il cast doveva provenire veramente da quelle zone, volevo che gli attori davvero avessero respirato l’aria di quella terra, che apportassero con il loro vissuto quella verità appunto che ho ricercato in molti aspetti del film.

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La storia che ci hai raccontato è tratta da una storia vera. Com’è stato conoscere o comunque fare un chiaro riferimento alla realtà?

La volontà di rappresentare, mettere in scena la realtà è una spinta costante per chi racconta delle storie. In un certo senso ci si ispira sempre a quello che ci circonda, che si conosce o al contrario non si ha mai esperito e che si vuole scoprire, si prende la realtà e la si reinterpreta secondo il proprio sguardo. In questo caso, il legame è diretto e dichiarato,  la storia è ispirata a persone reali, che per motivi diversi avevano elementi della loro vita che mi affascinavano profondamente e che mi interessava approfondire. Poi ovviamente le ho reinterpretate nello sviluppo di questo film che è comunque di finzione.

“Guarda che di disperati veri ne siamo rimasti in pochi”. Questa è una della frasi pronunciate da Accorsi che mi ha particolarmente colpito. Chi sono per te i veri disperati oggi come oggi?

Penso di avere un concetto romantico di disperati. Sono quelli che non hanno niente da perdere e forse poco da guadagnare, ma sono disposti a giocarsi tutto per un’ideale, un sentimento, un sogno. I disperati sono sempre i migliori perchè imprevedibili, sfuggono al controllo.

Nel tuo film, non si parla soltanto di corse e di motori, ma di molto altro ancora. Si parla di forza e fragilità, di solitudine e di unione, di famiglia, di libertà e di dipendenza dalla droga e di emozioni. In che modo sei riuscito a raccontare una storia di vita così entusiasmante?

Penso che in questo senso il genere abbia aiutato. Spesso si ha il preconcetto che si possano raccontare delle storie dense e profonde solo in un certo modo, con un certo stile, e anche a dispetto della voglia di spettacolarità e di divertimento del pubblico. Raccontare una storia che tocca punti profondi dell’anima dei personaggi che la compongono facendoli sfrecciare a 200km all’ora probabilmente ha aiutato a ravvivare l’entusiasmo!

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Cosa vorresti rimanesse agli spettatori di “Veloce come il vento”?

Mi piacerebbe che portassero a casa un po’ dell’adrenalina delle piste ma anche l’abbraccio finale fra i due fratelli. Spero anche che in tanti che prima erano così distanti dal mondo delle auto possano sentire un richiamo di curiosità che li porti a voler conoscere qualcosa di più dei personaggi che hanno ispirato la storia, ma anche che vogliano capire qualcosa di più del rally e del gran turismo.

Matteo, quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud, un quotidiano molto attento alle tematiche che riguardano le terre del Sud, non soltanto del nostro Paese, ma anche del mondo. Possiamo intendere anche il Sud di un quartiere, di una regione, di una città. Tu quando cosa pensi della parola Sud? Cosa rappresenta per te?

In realtà considero i punti cardinali per quello che sono: dei riferimenti, delle convenzioni. Spesso si parla di Sud e Nord come concetti mentali, culturali, sociali, cui corrispondono stili di vita. Sinceramente non penso sia così. Per capirci: Se sei a Milano sicuramente Messina è Sud, ma se vieni da Oslo come collochi Milano? E se sei a Capetown qualsiasi cosa diventa Nord. Insomma, questo forse per dire che non amo molto le categorizzazioni.

Dopo “Veloce come il vento”, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Non ho ancora deciso!


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