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Tra utopia, storia e ironia. Ecco il segreto del successo letterario di Gianni Spinelli
16 Giu 2016 08:35

Nonostante i social network abbiano creato e diffuso l’illusione che, in questo tempo dell’eterno presente, da un lato l’arte dello scrivere sia diventata accessibile a tutti e che tutti possano esprimerla anche senza una solida struttura culturale, e dall’altro che esercitare la memoria per reinterpretare la quotidianità sia una pratica desueta, r-esistono ancora scrittori e giornalisti come Gianni Spinelli. Per l’ex vicecaporedattore de «La Gazzetta del Mezzogiorno» ed editorialista del «Corriere del Mezzogiorno», nonché allievo di Gianni Brera, la scrittura deve essere semplice, ma efficace. Originale, ma non banale. Gianni Spinelli – fortificato da una notevole sensibilità culturale e animato da una pregevole capacità lessicale – dopo il grande successo editoriale del 2014 “Settanta volte donna” (Ed. Gelsorosso), con la medesima casa editrice barese è attualmente nelle librerie con “Tutta colpa di Eva”. L’ho incontrato e gli ho rivolto alcune domande.

Con il tuo ultimo libro esplori la nostra contemporanea “società liquida” dialogando con alcuni grandi personaggi storici del passato. Questa scelta nasce dalla voglia di esercitare con ironia la memoria per chiarire il presente o dalla noia per chi oggi vorrebbe fare la storia?

Le due “tracce” stanno assieme. Hanno un forte legame. Ho voluto chiarire il presente con i grandi personaggi del passato, essendo annoiatissimo dalla pochezza di chi oggi vorrebbe fare la storia. Ho provato ad intervistare i contemporanei. E, salvo poche eccezioni, ho trovato vuoti enormi, incapacità di sostenere un dialogo sereno, predisposizione alla polemica, impreparazione. Addirittura mi sono trovato di fronte a gente che cercava di impormi le domande con aria sorniona di chi ti vuole complice anche su argomenti e prese di posizione minori. In un paio di occasioni, poi, ponendo domande a politici, ho avuto la sorpresa di una proposta oscena: “Non ho tempo, mi scriva pure lei le risposte”. Voliamo alto e parliamo di filosofia: io, fra Socrate virtuale e Cacciari reale, scelgo cento su cento Socrate. Perché mi insegnerà di certo qualcosa. Mentre Cacciari mi griderà addosso parole su parole, con la supponenza del primo della classe.

Ogni testo ha o dovrebbe avere un obiettivo. Qual è il senso di questo volume e la sfida che lanci? 

L’obiettivo è quello di far riflettere con il sorriso, far divertire i lettori come mi sono divertito io, mai restando a mani vuote dopo le interviste impossibili-possibili. I Miti scendono sulla Terra generosamente per me. Ci incontriamo in location vere e fra noi scatta empatia e parità assoluta. Non parliamo di cose vetuste, se non raramente, ma esaminiamo il presente. E, siccome la situazione in Italia, specie quella politica, facendo il verso a Ennio Flaiano, “è grave ma non è seria”, facciamo satira. E capita, per esempio, che Nerone abbia una soluzione per Roma-ladrona, ossia l’incendio dolce. La sfida che lancio è quella di non mettere nel cassetto il passato. Nello stesso tempo, mi propongo di demolire luoghi comuni assimilati in una scuola manierosa (quel Garibaldi così e così, eroe presunto) e leggendo giornali zeppi di fregnacce.

Come dimostrano i tuoi volumi e i tuoi articoli, poni molta attenzione alle parole. Le rispetti. Chi condivide con te questa visione ontologica della comunicazione, oggi sembra un alieno. Condividi la tesi per cui oggi le parole sono state svuotate di significato con il rischio di alterare la percezione pubblica?

Le parole per me sono oggettive, hanno un significato preciso, netto. Tanto che uso pochissimo gli aggettivi che sono orpelli inutili e significano un “non sapersi esprimere”. Bruttezza è bruttezza. Non è bruttezza inaudita. Le parole si sono svuotate perché si sono svuotate le azioni, l’etica. I media hanno fatto il resto, descrivendo furti di serie A, furti di serie B, aggiungendo “quasi e forse”. Certo: la percezione pubblica viene alterata. Ed è già realtà. Non rischio. Oggi di chiaro c’è ben poco. E la parola ha seguito l’andazzo. Per cui, il lettore è smarrito: deve rileggere una, due, tre volte perché chi ha scritto ha fatto ricorso a giochi ambigui del linguaggio. Montanelli diceva: “Se hai bisogno di ritornare sul periodo, significa che il giornalista o l’autore del testo è un somaro”. Condivido. Ho letto molto Calvino e Brera: loro rispettavano le parole. Rigorose. Le parole usate con visione ontologica danno credibilità e autorevolezza al giornalista, all’opinionista, allo scrittore. Cosa fare per recuperare? Preparazione e onestà intellettuale.

In “Settanta volte donna” (un grande successo editoriale del 2014 sempre firmato Gelsorosso), invece, elogi la Donna, sottolineandone l’importanza nella nostra quotidianità. Eppure viviamo un Paese che non consente alle donne di autodeterminarsi facilmente e di imporsi socialmente. Perché è così difficile creare una parità di genere e superare le tante disuguaglianze?

La donna italiana è partita tardi nel percorso di recupero, frenata da una società maschilista, legata a schemi antichi, specie nel Sud. Ha dovuto vestire i panni della “regina del focolare”. Poi via via qualcosa è cambiato in meglio, anche dal punto di vista legislativo. La donna ha lottato, ha imparato a farsi largo nel lavoro, in politica e nella società. È comunque ancora una corsa in salita per il residuo arroccamento degli uomini e per una competizione notevole fra le stesse donne. In “Settanta volte donna”, vince sempre la donna nella quotidianità: è più forte nel doppio ruolo di impegnata fuori e in casa, nonostante abbia alle spalle un Paese che scarseggia in aiuti pratici, vedi asili-nido. Io faccio decisamente il tifo per lei.

La cronaca, purtroppo, sempre più spesso, ci consegna storie di ordinaria follia e di straordinaria violenza, ai danni delle donne. I cosiddetti “femminicidi” hanno raggiunto quantità e intensità sconosciute in passato. È “tutta colpa di Eva” o abbiamo una questione maschile” in questo Paese da affrontare?

Qualsiasi cosa “Eva” abbia fatto, anche un tradimento feroce, non si giustifica la reazione del maschio. L’uomo non sa accettare il rifiuto o l’abbandono o qualsiasi tipo di reazione femminile, non sa dialogare, non sa sostenere un ruolo paritario, non sa essere umile.  E non sempre è un povero psicopatico. Sì, abbiamo una “questione maschile” che richiede interventi globali: educazione, in famiglia e nella scuola, arricchimento culturale. Le donne da sole non bastano: è tempo di coinvolgere gli uomini “sani”. Un’alleanza che faccia sentire il suo peso. Il “tutta colpa di Eva” del mio libro non condanna il gentil sesso. Anzi lo difende, ribadisce il suo diritto alla libertà.

“Il gol di Platone” (Ed. Sedit) è, infine, il titolo di un originalissimo e interessante saggio del 2013 con cui racconti “l’arte del calcio” attraverso la filosofia e il filosofo Zeman. Si stanno disputando gli Europei. Come lo racconterebbero questi tuoi illustri amici del passato?

«Mah, il calcio è materia che porta anche i filosofi fuori senno. Parlerebbero di “ragion pura”, di “dogmi”, di tattiche complicatissime. I “Monty Pyton”, come si può vedere su YouTube, hanno fatto disputare una partita tra filosofi greci e filosofi tedeschi, che hanno schierato l’infiltrato Beckenbauer. In questa mitica partita, ha vinto la squadra di Socrate, ancora lui, proprio con un suo gol di testa. Contento? Macché. Socrate ha massacrato l’arbitro Confucio. Mi ha detto: “Non ne ha azzeccata una. C’erano tre rigori per noi, fra l’altro. Un venduto, ciecato e cornuto. E le raccomando i due guardalinee, San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino. Non all’altezza. Giudizi all’unisono dei vincitori e degli sconfitti. Il calcio non è più quello di una volta. Che schifo!”. Insomma, siamo lì: calcio era, calcio è. E non basta: De Amicis parla di scommesse e Nerone di partite comprate. L’unico a salvarsi resta Zeman. I più non credono nell’Italia e, soprattutto, non stimano Tavecchio, “a digiuno delle teorie di Kant”.


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