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Ricordando Don Pino Puglisi
16 Set 2016 08:35

Quello sguardo e quel sorriso non lo lasciavano mai. Sempre pronto ad ascoltare, sempre pronto a dare una mano, senza mai trascurare il rigore educativo e il richiamo alla piena responsabilità di ciascuno di noi. Il 15 settembre del 1993 la mafia lo ha ucciso. Lo ha ucciso proprio il giorno del suo 56° compleanno, davanti al portone di casa. Una figura cara a molti, anche a me. Don Pino mi ha accompagnato da giovanissimo nel mio impegno associativo in Azione Cattolica e nel volontariato. Con lui in particolare, insieme a tanti altri giovani universitari, ho trascorso uno dei periodi più intensi e significativi della mia vita quando era assistente del gruppo Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) di Palermo ed io il presidente.

Ci accomunava l’idea che la scelta religiosa non potesse e non dovesse essere interpretata come una delimitazione di campo, in chiave integralista e di contrapposizione frontale alla società e agli altri pensieri culturali e religiosi, ma piuttosto un modo di essere e di agire in tutti gli ambiti della realtà, nessuno escluso: dal culturale al sociale, dall’economico al politico. Secondo lo stile dell’incarnazione, del dialogo, della condivisione, della ricerca comune di ciò che favorisce lo sviluppo integrale della persona umana.

Di don Pino era evidente che l’”altro” non era qualcuno da conquistare, ma una persona da rispettare e con cui fare un cammino insieme di crescita educativa, innanzitutto, ma anche di impegno civile e sociale. L’”altro” più in difficoltà, povero o emarginato che fosse, rappresentava ancor di più un richiamo alla condivisione e alla responsabilità comune. Guardava ai progetti spirituali e sociali con entusiasmo, era pronto subito a parlarne e a facilitarne l’attuazione. Da sacerdote la sua fede si traduceva in un impegno quotidiano al servizio della persona e della comunità. Tanto mite e umile, quanto tenace e determinato, non conosceva ostacoli quando si trattava di salvaguardare la dignità dei più deboli ed emarginati, soprattutto se bambini.

Accettò di ricoprire il ruolo di parroco nella parrocchia di San Gaetano, a Brancaccio, in un momento di grande difficoltà in quella comunità. Già pieno di impegni con il Centro vocazionale, con la stessa Fuci e con altri gruppi capì che non poteva rimanere indifferente, far finta di niente e tenersi lontano da una realtà difficile come quella. Decise, quindi, con convinzione di andare, chiamò tutte le persone che collaborarono a vario titolo con lui e ci invitò a dare una mano per accompagnarlo in quella che si presentava come una vera e propria sfida. Non perse tempo, iniziò subito un importante lavoro con i ragazzi e le famiglie del quartiere. Brancaccio era una delle zone a più alta densità mafiosa della città. Uno di quei quartieri a rischio, dove i giovani potevano venire facilmente irretiti dalle lusinghe comportamentali ed economiche di Cosa nostra. Qui il degrado, il disagio, il disordine urbanistico, l’assenza dei principali servizi culturali e scolastici caratterizzavano il contesto dove regnavano i Graviano e una fitta rete di boss mafiosi pronti a tutto e ritenuti affidabili per i corleonesi guidati da Totò Riina.

In un posto anche ricco di potenzialità, di cittadini onesti, di voglia di fare, di ragazzi pronti a raccogliere la sfida del cambiamento … don Pino si rimboccò le maniche e iniziò quel lavoro tutto in salita ma pieno di gioia e di amore. La scelta religiosa a lui tanto cara si fece pertanto vita concreta sia sul versante pastorale che su quello sociale. Immediatamente si trovò di fronte al tema dei temi: a chi far gestire le feste religiose. Non ebbe dubbi, con decisione prese in mano la situazione e tagliò fuori l’antica e scontata cogestione con i boss delle famiglie mafiose. Niente più inchini davanti alle case dei boss, niente finanziamenti con i soldi della droga, niente soggezione e irriverenza ai Graviano, ai Guttadauro, agli Spatuzza e ai tanti boss del quartiere, il cui elenco completo sarebbe lungo da fare. Anche nelle omelie, di fronte agli stessi mafiosi seduti sui banchi della parrocchia, don Pino non rinunciò a dire le cose come stavano e a fece capire che non c’era più posto per il loro modo di fare e di agire.
Avviò un’altra bella esperienza di quartiere, il Centro Padre Nostro, mettendola al servizio della crescita educativa dei giovani. Lavorò subito per costruire una nuova parrocchia in grado di avere molti locali da destinare ad attività pastorali e sociali. Li aprì a tutti, cercò subito il contatto con il comitato di quartiere e puntò l’attenzione verso la scuola e la necessità di dotarla di nuovi locali.

Tutta questa attività per la mafia via via divenne ostile ed insopportabile. In sostanza una realtà da cancellare prima con lusinghe poi, una volta andate a vuoto, con le minacce, anch’esse inefficaci, e infine con la sua eliminazione.

La notizia della sua morte mi raggiunse mentre mi trovavo in Piemonte. Dopo una giornata piena di impegni con il mondo del volontariato, appena rientrai in albergo sentì il telegiornale che raccontava dell’omicidio. La vicenda mi scosse, mille pensieri affollarono la mia mente, contattai subito i ragazzi della Fuci e del Movimento del volontariato che collaboravano con lui nel quartiere e organizzai il mio rientro a Palermo. La città e il Paese tutto furono scossi dall’omicidio di padre Pino.
Noi ragazzi sentimmo la necessità di non lasciar cadere il significato e il valore del suo impegno. Un’esigenza ampiamente condivisa. Da allora molta strada è stata fatta. Padre Puglisi è oggi beato e tanti si ispirano a lui per vivere la loro esperienza di fede in quartieri a rischio o di mafia, di violenza o degrado.

La mafia ha ucciso don Pino ma non ha eliminato i suoi insegnamenti. Oggi la sua è una memoria feconda e di speranza intorno a cui la Chiesa e la società possono fare quel cammino, anche questo in salita, per fare un salto di qualità.


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