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Un pomeriggio a Foggia, quarant’anni fa
28 Dic 2020 12:16

Foggia. Posso produrmi in una sua fotografia, risalente ad un periodo relativamente lontano. Non vedo Foggia da 37 anni. Non sono foggiano, ma l’ho frequentata ampiamente dai miei 13 anni sino a venti. Parlo di un periodo che va dal 1976 al 1983. Perché mio padre vi si recava quasi giornalmente per il suo lavoro.

A Foggia facevo le compere e accedevo ai servizi. Li vi era la piscina dove prendevo lezioni di nuoto stile dorso, la palestra dove facevo gli esercizi per irrobustire le spalle, la professoressa di eccellenza per la mia matematica ed i negozi dove facevo le compere di vestiario e calzature.

Per arrivarci percorrevo strade dove, in alcuni tratti, vedevo auto quasi sfiorarsi. Era la Campobasso-Foggia. Prima rettilinei che si susseguivano in una girandola di grandi curve, poi tutto dritto e piano.

Che ricordo ho di Foggia?

Ne avevo maggior considerazione rispetto ad altre città che frequentavo (almeno cinque), perché essa era molto ordinata ed elegante. I negozi che aveva Foggia erano particolari ed i cittadini avevano molta cura nel vestire.

Quando vi arrivavo con la mia famiglia, la prima tappa era da un amico di mio padre, Oreste Fasano, che aveva la boutique “Studio Petronio”. Un nome che evocava grandi architetti nella prima parola e grandi poeti nella seconda. Geniale.

Mio padre ivi era di casa. Ogni settimana compiva qualche acquisto.

Il negozio era a mo’ di lungo corridoio ed in fondo vi era una scala che conduceva ad un vano superiore. All’interno del locale, vi era un silenzio, ovattato dalla presenza di tanti abiti, che sembravano assorbire i rumori.

Una volta chiusa la porta, lasciavi il mondo fuori. E tutti dentro parlavano a bassa voce con i propri clienti. Il signor Oreste, ci consegnava ad uno dei commessi che ci faceva da guida.

Nello “Studio Petronio”, dal 1979 circa, ho visto nascere le prime firme della moda.

Dapprima, nel panorama italiano, vi era solo Valentino. Poi si aggiunsero d’emblée: Giorgio Armani, Gianni Versace e Gianfranco Ferrè. In quel tempo erano degli sconosciuti e non vi era nemmeno il concetto di firma. I maglioni che mi venivano proposti, quindi, erano fondamentalmente di tre anonimi. Armani aveva insolitamente anche uno stemma.

Lasciato lo “Studio Petronio” andavamo a mangiare una cassatina al Bar Sottozero. Trattavasi di una prelibatezza che mi risultava essere un must per tutti i foggiani. Infatti, vedevo entrare persone che mangiavano uno di tali dolci ed andare via velocemente. Una sorta di rito.

Poi facevamo una passeggiata per il corso. Ricordo che mi aggradavano due palazzi in particolare. Uno aveva l’ingresso in legno. Ma in giro era tutto un bel vedere.

Dopo una lunga camminata eravamo alla boutique “Marisa”, per gli acquisti di mia madre. Ed io e mio fratello eravamo costretti ad estenuanti attese, seduti su un piccolo divanetto, che conteneva entrambi.

Quando si usciva era già l’imbrunire. Vedevamo tante luci accendersi per strada e la strada accendersi. Con la gente che incedeva. Era il momento della passeggiata dei foggiani. Noi invece procedevamo velocemente, nonostante i pacchi in mano, pronti a raggiungere l’auto.

Prima però vi era un veloce passaggio per le scarpe, ai negozi Spatafora e Di Varese. Era davvero l’ultima tappa degli acquisti. Poi ricordo che passavano per una scorciatoia. Una sorta di imbuto, sotto un palazzo, dove davano vista le vetrine di un negozio: Cappetta. In mostra oggetti di pregio.

Da lì arrivavano ad un garage sotterraneo. In centro era difficile parcheggiare ed eravamo costretti ad andare in posti custoditi.

Con l’auto raggiungevamo degli amici, nella parte periferica della città. Erano in un condominio recintato con un grande cancello di ferro. All’interno tante ville. Una diversa dall’altra. Conoscevamo tre diverse famiglie e le si andava a trovare a turno. Una di queste aveva una casa molto strana, che a me affascinava perché un po’ misteriosa. Aveva dei corridoi moto stretti, era tutta piena di moquette ben rasa e con i soffitti arcuati. Più che dei corridoi sembravano dei cunicoli.

Ogni stanza era collegata all’altra con un citofono. E poi sulle varie porte, rigorosamente bianche, vi erano dei cartelli rossi con delle scritte ironiche.

Dopo la visita agli amici, prendevamo la via di casa. Foggia mi appariva tutta illuminata e vedevo quelle luci allontanarsi inesorabilmente. Tutto ciò scrutando dal lunotto dell’auto. Poi quel lungo rettilineo.

Era proprio bella Foggia. Anche se al ritorno venivo preso da una sensazione di solitudine. Tutto quel buio intorno per lunghi chilometri, con rare auto. Quelle che sembravano sfiorarci.


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