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La debolezza dell’Università italiana nel reagire a sette anni di compressione
04 Mar 2016 08:15

La debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione è anche frutto di politiche di “divide et impera”, attuate attraverso indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno. Un ulteriore esempio di queste scelte è il D.M. che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori RTDb, una misura insufficiente a bilanciare la  riduzione di 7.809 unità fra il 2008 e il 2015. L’allocazione prevista dal D.M. sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, presupponendo  che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme, trascurando gli effetti di sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme. Qualcuno potrebbe derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme.

Elaborazione UDU, tratta da:
http://www.unionedegliuniversitari.it/piano-ricercatori-poche-assunzioni-e-aumento-divario-nord-sud/
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La grande debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione del suo ruolo e delle sue attività, che non ha pari nel tempo e in comparazione internazionale, è dovuta anche alla sua divisione interna; frutto di intelligentissime politiche di “divide et impera”, attuate attraverso l’utilizzo di indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli finanziari e delle risorse umane. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno.

Le vicende degli ultimi giorni forniscono un ulteriore esempio di queste scelte. Il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha emanato il 18 febbraio scorso un decreto con il quale provvede alla ripartizione fra le sedi universitarie dei 47 milioni (per l’anno 2016; 50,5 milioni a decorrere dal 2017) messi a disposizione dal comma 247 della Legge di Stabilità per il 2016, per il reclutamento di nuovi ricercatori universitari.

E’ stato sottolineato da più parti come tale stanziamento, che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori (a tempo determinato), non sia assolutamente in grado di bilanciare la fortissima riduzione del personale docente nelle università italiane avvenuta negli ultimi anni. Come documentato, tra gli altri, dal Rapporto della Fondazione Res “Università in declino. Un’idagine sugli atenei da Nord a Sud” (Donzelli Editore), infatti, il personale docente si è ridotto di ben 7809 unità fra il 2008 e il 2015 (anche tenendo conto dell’immissione di nuovi ricercatori con contratto a tempo determinato), e tenderà a ridursi ulteriormente nel prossimo quinquennio.

Ma l’aspetto che più rileva del decreto è la modalità con cui queste possibilità di assunzione sono state ripartite fra gli atenei. I primi provvedimenti che hanno inciso sulle possibilità di assunzione delle università, le hanno bloccate per le sedi con un rapporto superiore al 90% fra spese di personale e Fondo di Finanziamento Ordinario, e consentite per le altre. Poi sono stati introdotti blocchi e limitazioni complessive del turnover del personale. Nel 2012, tuttavia, il Ministro Profumo ha reso tali limitazioni diverse fra sede e sede, legandole ad indicatori di natura finanziaria nei quali – per la prima volta – era anche considerato il gettito della tassazione studentesca. Nel 2013 il Ministro Carrozza ha poi eliminato il tetto massimo, che era vigente, di recupero del turnover: consentendo così ad alcune sedi di superare il 100% (nuove assunzioni maggiori dei pensionamenti), mentre per altre il valore era inferiore al 20%. L’insieme delle disposizioni ha prodotto così politiche assunzionali assai sperequate; dato il rilevante ruolo giocato dalla tassazione studentesca (strettamente legata al reddito procapite dei territori di insediamento), tale sperequazione ha ssunto anche carattere territoriale. Ad esempio nel 2012-14 il turnover medio è stato del 38,7% negli atenei del Nord, del 24,2% al Centro, del 19,9% al Sud e del 15,4% nelle Isole; oltre il 100% per Catanzaro e Sant’Anna di Pisa; inferiore al 20% per 18 atenei del Centro-Sud e per Udine.

Il comma 248 della legge di Stabilità, così come proposto dal Governo e non emendato dal Parlamento, innova ancora una volta questi criteri, e stabilisce che in questo caso “l’assegnazione alle singole università è effettuata (…) tenendo conto dei risultati della valutazione della qualità delle ricerca (VQR)”. Vediamo ora come il Ministro Giannini ha applicato questa norma. Il decreto stabilisce in primo luogo che a ciascun ateneo spettano risorse pari a due ricercatori, allocandone così 132. Il Ministro “tiene conto” poi della VQR assegnando tutti gli altri ricercatori (729) in base ad essa (in particolare per il 75% in base all’indicatore Irfs1 e per il 25% in base all’indicatore Iras3).

Tali criteri allocativi determinano una ulteriore sperequazione fra sedi, come è possibile verificare grazie ad una precisa elaborazione realizzata dall’Unione degli Universitari (http://www.unionedegliuniversitari.it/piano-ricercatori-poche-assunzioni-e-aumento-divario-nord-sud/), che rapporta i nuovi ricercatori per ciascuna sede sia al totale del personale docente in servizio nel 2015, sia alla riduzione avvenuta fra il 2010 e il 2015. La distorsione è duplice. In primo luogo il primo criterio (2 per sede) premia oltremisura gli atenei di dimensione più piccola. Ad esempio si ha un incremento di personale pari al 7,9% per l’Università per Stranieri di Perugia e del 6,2% per la Sant’Anna di Pisa (due università di un certo interesse perché di esse sono state Rettrici il Ministro in carica e il precedente), a fronte di un incremento medio pari all’1,8%. La seconda allocazione, come tutte quelle effettuate sulla base dei dati che si riferiscono alla VQR 2004-10, ha un forte effetto fra circoscrizioni e fra sedi. Come ben noto a tutti, tali dati penalizzano particolarmente le università del Centro-Sud. Gli atenei del Nord infatti ottengono un numero di nuovi ricercatori pari al 14,8% della riduzione di personale registrata fra il 2010 e il 2015; percentuale che scende intorno al 9,5% al Centro-Sud (e intorno al 6% per i grandi atenei di quell’area). Bologna, la sede cui sono allocati più ricercatori, recupera il 13,5% della riduzione 2010-15 (50 su 371); Roma-Sapienza, seconda nell’assegnazione, recupera solo il 6,1% (47 su 766).

Quanto sono in ballo criteri di riparto – specie se si riferiscono a limitate assunzioni di nuovo personale (a tempo determinato) in un periodo di fortissima riduzione degli organici – vi è un comprensibile incentivo per ciascuno a giudicarli in base al proprio specifico tornaconto; determinando così frizioni e contrapposizioni fra chi si ritiene ingiustamente penalizzato e chi giustamente premiato. Nella difficilissima situazione dell’università italiana, è proprio questa la dinamica che va evitata. Sarebbe opportuno uno sforzo di riflessione comune intorno ai notevoli interrogativi che questa vicenda, insieme a tutte le altre che l’hanno preceduta, pone.

Proviamo ad elencarne quattro.

  • E’ opportuno che le possibilità di nuovo reclutamento, dopo le drammatiche riduzioni sperimentate negli ultimi anni, siano diverse fra sedi? Non sarebbe invece meglio che questo recupero così parziale fosse stabilito in semplice proporzione del personale in servizio o, meglio, della riduzione sperimentata negli ultimi anni?
  • E’ accettabile, indipendentemente dall’esito che si determina, un uso così disinvoltamente discrezionale e variabile nel tempo (per ulteriore ampia documentazione si veda il volume: “Università in declino”) dei criteri di riparto (che coincidono con le allocazioni, dato che i dati per ognuna sono già disponibili), da parte delle burocrazia ministeriale e del Ministro?
  • Gli indicatori Irfs1 (che è quello con la più alta varianza fra atenei) Iras3 della VQR 2004-10 individuano davvero un “merito” degli atenei da “premiare”? C’è molto da dubitarne, dato che essi, oltre alle enormi criticità connesse alla VQR in sé, non considerano caratteristiche e dotazioni delle diverse sedi (personale, dotazioni, risorse finanziarie esterne non competitive) che hanno permesso le pubblicazioni valutate; né distinguono fra aree scientifiche all’interno degli atenei (pur sapendo che la varianza dei risultati della VQR è maggiore fra aree all’interno degli atenei che non fra atenei). Il moltiplicarsi, improprio, del loro uso, è con tutta probabilità legato al semplice fatto che essi producono indici di riparto “graditi” al decisore.
  • Infine, anche e soprattutto. Anche prescindendo da quanto appena detto: quale indirizzo di politica universitaria e delle ricerca segue l’allocazione asimmetrica di risorse ordinarie (e non aggiuntive!), in questo caso nuovi ricercatori, fra sedi in base al “merito”, “premiando” le sedi “forti”? Essa sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, duale, fra sedi dell’università italiana. Non si preoccupa del rafforzamento, in ottica di sistema, di quelle relativamente “deboli”, che tenderanno nel tempo a deperire: presuppone quindi che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme; non considera la grandissima sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud) che essa produce (in parte dovuta agli indicatori), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme.

Se un docente di un ateneo “debole” (come nel caso di chi scrive) solleva questi problemi, è facile derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma che, come si è appena provato a fare, solleva interrogativi importanti e generali sull’università italiana. Sarebbe perciò auspicabile che un contributo a questa discussione venisse anche da colleghi delle sedi che hanno “vinto” (ad esempio da colleghi di Bologna o della Sant’Anna), provando a recupere la convinzione che chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme.


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