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Amore e dedizione per il proprio mestiere. Intervista a Stefano Sardo
12 Lug 2016 08:35

Stefano Sardo, oltre che un ottimo musicista, è un eccellente sceneggiatore.  A lui si devono le sceneggiature de “La doppia ora”, “Tatanka”, “Il ragazzo invisibile”, “1992” firmando anche il soggetto della serie,  e molto altro ancora tra cui anche alcuni episodi della fiction “Il Sistema” trasmessa non molto tempo fa su Rai1. Nel 2013 ha scritto e anche diretto il documentario “Slow Food Story”, presentato alla Berlinale e al Telluride Film Festival, distribuito in sala da Tucker Film. Ha scritto e diretto cortometraggi presentati a molti festival. È fondatore e direttore artistico del festival internazionale di cortometraggi Corto in Bra, dal 1996 e del festival di cinema e cibo Slow Food on Film, svoltosi a Bologna nel 2008 e 2009. In quest’intervista abbiamo cercato di ripercorrere la sua brillante carriera, fatta di molti successi accomunati da un grande amore per il suo mestiere.

STEFANO_SARDO-300x300Chi è Stefano Sardo oggi?

Un 44enne che vive a Roma da anni per fare il lavoro che ama.

Come nasce la tua passione per la scrittura?

Io odio scrivere, ma amo aver scritto. È estremamente faticoso stare tutto il tempo a buttar giù storie, contrariamente all’idea romantica che se ne ha: chi ne ha un’idea romantica di solito è qualcuno che non scrive. Ma la cosa impagabile del mio mestiere è quel momento puramente creativo in cui un attimo prima non hai niente e un attimo dopo hai un’idea. Io ho il piacere e l’abitudine di farlo non da solo, il più delle volte, ma insieme a colleghi che stimo e che sono anche miei amici. Amo lavorare in gruppo! Non ho sempre pensato che avrei fatto questo mestiere, ma fin da piccolo sono appassionato di cinema e serie tv e mi sento fortunato a essere finito a fare questo nella vita. Non sono mai stato un tipo da lavoro fisso, fin da ragazzino sono sempre stato propenso a fare un lavoro creativo. La cosa che la gente non considera è quanta disciplina richieda una scelta del genere, assai più del talento.

Cosa significa essere sceneggiatore oggi?

Ho iniziato a fare questo mestiere nel 2003, forse il momento peggiore per provarci, in Italia: per un decennio abbondante, mi sono vissuto il micidiale effetto combinato del duopolio Raiset dell’era berlusconiana insieme con gli effetti della crisi economica sul comparto. In altri Paesi, i miei colleghi hanno potuto contare su un mercato più florido, più competitivo e più giusto. Da un paio d’anni però per fortuna è cambiato tutto. Il mercato dell’audiovisivo europeo è stato rivoluzionato dall’arrivo degli Over the Top e anche l’Italia è finalmente sotto i riflettori di questi broadcaster 2.0 che vogliono nuovi contenuti per un mercato che, a differenza di quello americano, è tutt’altro che saturo di contenuti seriali. È un momento interessantissimo, improvvisamente, per essere uno sceneggiatore Italia. Finalmente si cercano idee originali e ambiziose.

Ci racconti i tuoi esordi?

Verso la seconda metà degli anni Novanta facevo il musicista, registravo album con la mia band, i Mambassa. Avevo pubblicato anche un romanzo, e grazie a quello sono entrato a giocare a pallone nella nazionale scrittori. Devo a un mio collega “calciatore”, Enrico Remmert, il cui romanzo era stato opzionato da RaiCinema, l’occasione per un primo contratto come sceneggiatore. Avevo appena finito il corso di sceneggiatura Scuolafiction di Mediaset (una scuola di scrittura incredibilmente ben fatta, in cui ho conosciuto Ludovica Rampoldi, con cui scrivo da 14 anni), e quando Enrico mi parlò del fatto che erano intenzionati di fare un film dal suo “La ballata delle canaglie”, mi proposi per scrivere il copione. Poi il film non si fece ma la mia sceneggiatura piacque, perché RaiCinema mi chiese di scrivere un altro film, e fu per quel secondo progetto che misi insieme la mia band di scrittura con Ludovica e un altro allora giovanissimo compagno della squadra di calcio, Alessandro Fabbri. Il primo nostro copione a essere girato è stato “La doppia ora”, che andò in concorso a Venezia nel 2009 ed è stato distribuito con ottimo successo anche negli USA.

Hai firmato il soggetto e la sceneggiatura de “Il ragazzo invisibile”. Com’è nato questo progetto?In Italia non capita tutti i giorni una proposta di scrivere un film di supereroi. Qual è stata la tua prima reazione e quali aspetti rappresentavano la sfida maggiore?

Il produttore Nicola Giuliano ci propose quest’idea subito dopo l’uscita di quel film. Ci disse che per una volta voleva provare a produrre un film per ragazzi che piacesse ai suoi figli, e pensava che il modo migliore per farlo fosse una storia di supereroi. A noi non sembrò vero che ci venisse chiesto di inventarci un nostro supereroe e ci mettemmo subito al lavoro con grande entusiasmo. La sfida maggiore era prendere l’immaginario supereroico, tipicamente americano, e ripensarlo nel contesto – narrativo ma anche produttivo – italiano, restando credibili e senza suscitare l’impressione di un voglio-ma-non-posso.

Come ti sei trovato con Gabriele Salvatores? Chi sono per te, oggi coem oggi, i ragazzi invisibili?

Gabriele è davvero una persona con cui è facile lavorare, è sempre alla ricerca di idee nuove, aperto e disponibile. È propositivo e al contempo molto rispettoso del lavoro degli altri. L’Oscar che ha vinto con “Mediterraneo”, come dice lui, è stato il “superpotere” che gli ha consentito di gestire la sua carriera continuando a sperimentare generi diversi. I ragazzi invisibili oggi? Mah, sai, oggi viviamo il paradosso di essere tutti estremamente visibili, con i social network, e al contempo di essere anche molto più soli, perché scambiamo l’essere connessi come un vero contatto umano, anche se non è così. Penso che sugli adolescenti questo effetto combinato di sovraesposizione e invisibilità sociale sia potenzialmente devastante.

Ha firmato anche la serie tv “1992”. Perché proprio quell’anno? Che tipo di approccio narrativo ai fatti storici raccontati avete adottato?

Ci interessava raccontare il 1992 perché è stato un momento in cui abbiamo sognato la possibilità di un Paese diverso. Il ‘92 è l’anno della rivoluzione. L’inchiesta Mani Pulite è la scintilla che genera il Big Bang. Si liberano energie incontrollate, correnti ascensionali che portano al vertice del Paese nuovi, inediti protagonisti. Quando abbiamo messo a fuoco questa chiave tematica, quell’anno ci è subito sembrato un’arena interessante e potentissima. Tutte le regole sono saltate, e quelle nuove devono ancora essere scritte. Chi sarà a farlo? Uomini Nuovi, chiamati a scrivere questo “Italian Tabloid” sulle pagine ancora bianche della Seconda Repubblica. Ne abbiamo immaginati alcuni, e li abbiamo fatti diventare i nostri protagonisti. Questa serie racconta le loro vite, che si snodano accanto a quelle dei personaggi reali che hanno scritto la Storia di quell’anno. È stata questa la scommessa di ideazione e di scrittura di “1992”: prima documentarsi, leggendo e intervistando molti dei protagonisti di quella stagione, magistrati e inquisiti, politici e uomini tv, giornalisti e intellettuali. E poi plasmare questa materia per creare un’ambientazione viva e credibile al nostro romanzo.  “1992” è stato per noi un lavoro intenso e diverso dagli altri, una delle rare volte in cui in Italia ci si è avvicinati al modello produttivo americano in cui gli sceneggiatori sono anche i ‘creatori’ della serie. Oltre all’ideazione e alla scrittura, abbiamo avuto un ruolo in tutte le fasi, dalla preparazione alle riprese, fino al montaggio. Una sfida unica ed esaltante, durata tre anni.

La situazione politica nel nostro Paese è diversa, secondo te, rispetto a quegli anni?

Sicuramente il problema della corruzione della classe dirignte non è migliorato, anzi se è possibile si è aggravato. Come ha detto Davigo, mi pare, Mani Pulite è stata una cura che ha attaccato un certo tipo di corruzione, ma ha finito col fortificare gli anticorpi di quella più resistente, col risultato che oggi questa è diventata epidemica, basta dare un’occhiata ai giornali. Nel 1992 i partiti rappresentavano ancora una visione del mondo precisa, incarnavano un’ideologia riconoscibile, benché al capolinea. Oggi siamo al post ideologico, al potere per il potere: manca chi sia capace di avere una visione del Paese sganciata dai sondaggi.

Quali sono state le principali difficoltà nelle quali ti sei imbattuto durante le fasi di lavorazione di “1992”? Ci sarà un sequel?

La nostra idea, ambiziosissima, era quella di avere protagonisti di invenzione e farli agire in contesti di realtà dell’epoca realistici, ricostruendo al contempo una versione stilizzata, sexy e riconoscibile di un’epoca non ancora diventata “period”, gli anni Novanta. Ci siamo dovuti documentare moltissimo. Abbiamo incontrato testimoni dell’epoca, fatto chiacchierate con persone di ambienti diversi perché quello che dovevamo restituire era non solo la veridicità dei fatti storici ma anche di costume. Dovevamo ricostruire arene diverse: c’era la politica ma anche Publitalia, la televisione, la giustizia, Mani Pulite e molto altro. Tutte queste realtà dovevamo acquisirle prima e poi costruirle come se fosse uno sfondo naturale, dato per acquisito, il tutto con un linguaggio da serialità contemporanea, con personaggi scissi e conflittuati che muovono la storia a partire dai loro difetti fatali, e così facendo impattano sulla Storia con la esse maiuscola. Insomma, un grande lavoro. Esaltante, a tratti, ma anche faticosissimo. In ogni sua fase, compresa quella della messa in onda, data l’enorme quantità di reazioni che il nostro impianto di racconto ha suscitato: molto polarizzate, in Italia, ma uniformemente entusiaste e lusinghiere all’estero. La serie è stata venduta in 60 paesi, a dispetto di un argomento molto specifico e molto italiano. Stiamo scrivendo il sequel “1993” ora. Si dovrebbe andare sul set a fine estate.

Hai firmato anche alcuni episodi della fiction “Il sistema”. E’ stato difficile raccontare una storia ambientata nel mondo della malavita d’alto bordo che prende spunto dai fatti recentemente accaduti a Roma?

Per “Il Sistema” mi sono limitato a fare lo sceneggiatore di puntata per due episodi, il 3 e il 4, basandomi su soggetti altrui molto dettagliati.

Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud. Qual è il tuo rapporto con questa parola?

Io sono nordico per molti aspetti: perché sono nato in Piemonte, per il mio aspetto vagamente teutonico, e anche per certi tratti del mio carattere. “Sud” è una parola che evoca la mia parte mancante e verso cui cerco sempre di protendermi: la solarità, la rilassatezza, la sensualità. Sa di vacanza e di calore. Mi piace.

I tuoi prossimi progetti?

Sono preso da diversi sequel, al momento: “Il ragazzo invisibile 2”,  poi “1993” e “In Treatment 3”, sempre per Sky. Sto inoltre lavorando a due progetti per Rai Fiction (“Rca” e “Il Regno”) e un paio di altre cose molto interessanti su cui non dico niente per scaramanzia.


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