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“Fuocoammare”: un film che dovremmo impegnarci a proiettare nelle scuole
01 Giu 2016 08:35

La foto della piccola Favour, bimba nigeriana di nove mesi che ha perso la mamma durante la traversata dalla Libia, commuove l’Italia intera. Ancora una volta, è l’immagine che catalizza l’attenzione dei sentimenti e dell’opinione. Come già accaduto nel caso del piccolo siriano ritratto su una spiaggia  senza vita. In quell’occasione “Il manifesto” con il titolo “Senza asilo” aveva reso diffuso il sentimento di rabbia e impotenza della nuova strage degli innocenti cui assistiamo quasi impotenti.

La storia di Favour, che commuove le famiglie italiane desiderose di adottarla, è diventata popolare grazie alla foto che la ritrae in braccio a Pietro Bartolo, l’ormai celebre responsabile del pronto soccorso di Lampedusa, e protagonista del documentario di Gianfranco Rosi, “Fuocoammare” vincitore dell’Orso d’oro a Berlino. Un film che dovremmo impegnarci a proiettare nelle scuole per aumentare consapevolezze artistiche e culturali per la piccola Favour che avrà vent’anni nel 2036. Epoca lontana ma sostanzialmente vicina, ci sfuggono le eredità che lasceremo ai giovani di quella generazione.

Quel grande comunicatore di Papa Bergoglio, ricevendo 500 bambini ha portato con sé il giubbotto salvagente di una bambina annegata in mare e donato al pontefice da un volontario. ”Mi ha portato questo giubbetto”, ha raccontato papa Francesco,  ”e piangendo un po’ mi ha detto: ‘Padre, non ce l’ho fatta. C’era una bambina, sulle onde, ma non ce l’ho fatta a salvarla”.

“Non voglio rattristarvi”, ha detto papa Bergoglio  ai bambini, ”ma voi siete coraggiosi e conoscete la verità. Sono in pericolo: tanti ragazzi, bambini, bambine, uomini, donne, sono in pericolo. Pensiamo a questa bambina senza nome. Ognuno di voi le dia il nome che vuole, nel suo cuore. Lei è in cielo e ci guarda”.

Favour, 9 mesi, ha un nome. Aveva una mamma con un fratellino in grembo e sono morti. La mamma adottiva le racconterà il sacrificio di quella biologica. Alla bambina morta in mare il Papa ci chiede di dare un nome. Io la vorrei chiamare Futura. Titolo di una canzone di Lucio Dalla  ispirata dalla follia del Muro di Berlino. A Futura bambina mai arrivate sulle coste italiane.

I bambini in udienza dal Papa erano calabresi. Scelti dal Vaticano perché  vivono in un luogo di sbarchi e approdi. Terra con buone storie d’integrazione scolastica dei piccoli migranti. Non dimentichiamo  che esiste anche la buona Calabria. Anche quando leggiamo che a Riace, paese dei Bronzi  e di buona accoglienza, il vicesindaco trova sul parabrezza della sua auto delle pallottole calibro 12 con il messaggio: “Dimettiti”.

Non abbiamo foto dell’ultimo barcone affondato a largo di Lampedusa. Non ci sarà quindi grande commozione per quei morti. Esistono solo racconti di chi li ha visti morire. Forse erano in 400, forse di più. Due pescherecci partiti da quella Libia senza patria né legge che è di fronte alla costa siciliana. Il primo trainava il secondo.

Barche che non cercano pesci e non temono fucili di marò pur se trafficano corpi umani. Dicono che il capo dell’organizzazione si chiami Osama. Non conosciamo invece i nomi dei migranti che stavano sul barcone trainato che ha iniziato a prendere acqua.

Non c’erano fotografi in quel tratto di mare, non c’erano telefoni digitali da usare. Non abbiamo immagini di quegli uomini, donne e bambini presi dal panico che tentavano di passare sull’altra barca.  Si schiacciavano addosso in una calca infernale. Si sono aggrappati alla fune che li univa all’altro peschereccio. Tanti sono caduti in mare. In quella grande tomba comune chiamata Mediterraneo.

Quei gran pirati degli scafisti di Osama, con senso del pratico e dell’economia di mercato, hanno tagliato con decisione la fune della speranza. Quella  fune, raccontano i sopravvissuti salvati dalla nostra marina,  ha strangolato e decapitato una donna che vi era appesa. Il vecchio barcone è affondato come tante volte accaduto. E come altre volte accadrà in questa tragedia del nostro tempo difficile.

Un ragazzo siriano sopravvissuto ad un naufragio ha dovuto scrivere una lettera alla mamma del suo miglior amico affogato nel viaggio. Questo testo assume la stessa epica commovente che leggevo da ragazzo nelle lettere dei giovani condannati a morte della Resistenza europea. Una lettera che diventa poesia tragica.

“Mi dispiace, mamma, perché la nave è affondata e non potrò arrivare a destinazione.. Mi dispiace per i subacquei e i ricercatori, ma non conosco il nome del mare dove sono annegato. State tranquilli, dipartimenti per i rifugiati, non sarò un peso per voi. Grazie, o mare, che mi hai accolto senza un visto e senza un passaporto. Grazie ai pesci che si divideranno il mio corpo senza chiedermi della mia religione  o della mia appartenenza politica. Grazie ai canali televisivi che trasmetteranno la notizia della nostra morte per cinque minuti, per un paio di giorni. Grazie a voi che sarete tristi quando sentirete la notizia. Scusate se sono annegato…”.

Non siamo in grado di creare corridoi umanitari. Lasciamo ai mercanti di corpi, degni epigoni di coloro che andavano a cercare schiavi per le Americhe nelle foreste africane, la tratta della speranza. Le Nazioni unite e le organizzazioni umanitarie chiedono inutilmente viaggi sicuri per i profughi con aerei e traghetti di linea. Ma la fortezza Europa ha paura. I profughi da migliaia diventerebbero milioni scrivono gli editorialisti di successo. Dobbiamo aiutarli nelle loro terre devastate da guerra, fame, siccità sostiene  chi non vuole apparire razzista. Il realismo pratico del culo parato domina questo scenario di morte.

Qualche foto, a volte, scuote il nostro torpore. Come quella di Favour. La foto di Futura è solo un salvagente in mano al Papa.

E ti fa sentire avvilito e affranto come un tifoso dell’Atletico Madrid  dopo il rigore sbagliato da Juanfran.


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