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L’attesa di “Aspettando Godot” nella magia del teatro. Intervista a Marco Quaglia
23 Gen 2017 11:32

Il teatro è il suo presente, è stato il suo passato, ma sarà sempre anche il suo futuro perché il teatro non è altro che lo sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita e lui sicuramente è un uomo che sta vivendo pienamente, offrendo al grande pubblico quanto di più bello ci possa essere, ovvero l’emozione.

Penso a questo mentre faccio l’intervista a Marco Quaglia, attore teatrale ma anche del piccolo e grande schermo. L’abbiamo visto spaziare nei ruoli più diversi, essere diretto da alcuni dei più grandi registi, ma sempre con un comune denominatore, ovvero quello di riuscire a comunicare, di permettere ad ogni singolo spettatore di entrare nel magico mondo del teatro. Dal 24 al 29 gennaio, infatti, con Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio e Francesco Tintis, lo vedremo al Teatro Dei Conciatori a Roma in “Aspettando Godot”. Marco sarà diretto ancora una volta da Alessandro Averone, attore e regista che con grande e magica delicatezza è riuscito a portare a teatro la poesia dell’opera più famosa di Beckett, autore ora più che mai attuale.

Chi è Marco Quaglia oggi?

È in costante evoluzione, ma finalmente sereno in questo suo continuo cambiamento. Dopo tanti anni passati sul palcoscenico, ha capito che fare teatro è la oramai la sua vita. Ha finalmente compreso che non è soltanto un mestiere, ma uno stile di vita, è qualcosa che parte da dentro. E’ un uomo che ha accettato questa sua irrequietezza interiore contro cui ha lottato per anni ma che probabilmente ha sempre fatto parte di sé.

Com’è nato l’amore per la recitazione?

Posso dirti che è una scintilla contro cui ho combattuto molto. Già da piccolo amavo stare sul palco ma ero eccessivamente timido; mi vergognavo di dire agli altri che volevo fare l’attore e faticavo anche ad ammetterlo con me stesso. Nell’ultimo anno di liceo però ho iniziato a fare un corso di recitazione e da lì è cominciato tutto! Mi sono diplomanto all’Accademia Silvio D’Amico e, per rincorrere il mio sogno, ho fatto il provino di nascosto ai miei genitori perchè volevano che facessi l’università e non l’attore. Mi sono così iscritto all’università ma contemporaneamente mi sono preparato di nascosto per entrare all’Accademia poi, man mano che ho superavo le fasi, mi sono reso conto che la mia non era solo utopia, bensì poteva diventare realtà. Ricordo che prima di superare l’ultimo esame ho chiamato i miei per avvisarli da una cabina telefonica; volevo essere sincero fino in fondo. Ricordo che dopo un silenzio abbastanza lungo, mio padre mi disse: “In bocca al lupo!”.

Tanti i ruoli che hai interpretato, penso ad esempio a Massimo Nardi in “Incantesimo”. Cosa ricordi di quell’esperienza?

Ho un ricordo molto bello; essendo infatti uscito da poco dalla Silvio D’Amico, essere preso per una fiction televisiva di Rai1 in cui avevo un ruolo fisso è stata una gioia immensa! Ho fatto parte di “Incantesimo” per cinque stagioni intere e per me è stata una grande palestra. Il vero amore per il set è nato proprio lì, lo stare davanti alla macchina da presa e il girare ogni giorno hanno permesso la nascita di bellissimi rapporti d’affetto tra noi del cast.

Tanti personaggi anche per il cinema due film particolarmente intensi come “Il più bel giorno della mia vita” di Cristina Comencini e “Suburra” di Stefano Solima. Affrontano due tematiche molto delicate come la famiglia e Roma in relazione con il potere criminale; come ti rapporti a questi due importanti temi?

Innanzitutto la famiglia per me è un importantissimo punto di riferimento; è grazie a lei che sono riuscito a superare momenti emotivi molto forti. E’ il luogo in cui puoi tornare sempre a rifugiarti; quello che sono oggi lo devo a mia madre e a mio padre. Parlare di famiglia in questo Paese non è semplice però perché spesso la famiglia tradizionale è alla base di molte ipocrisie a livello sociale che probabilmente andrebbero abbattute. Credo che l’amore sia alla base di tutto e credo sia proprio quello la vera famiglia. Sono di madre inglese e di padre italiano; c’è molta “Inglesità”in me, ovvero un’etica e una forte correttezza che mi è stata data come educazione, che spesso va a contrapporsi con quella furbizia e quel cavarsela tipica di noi italiani che può aiutare in determinate situazioni ma che in altre mi dà molto fastidio. Non che nel nostro bel Paese non ci sia quell’etica cortese e quell’educazione tipica di altre nazioni, ma l’Italia è un Paese in cui purtroppo il raccomandato è alla base di tutto; lo vedo nel mio lavoro soprattutto e me ne dispiace molto perché la nostra è una nazione colma di arte e di talenti veri.

Cosa significa secondo te essere attori oggi?

La vulnerabilità e la fragilità sono in realtà la nostra forza. Una volta che accettiamo queste nostre apparenti debolezze, credo che potremmo riuscire seriamente a fare bene il nostro lavoro. Quando vado a teatro, amo vedere attori che si rivelano, facendomi così stare in punta di poltrona; ecco perché secondo me per essere bravi portatori di emozioni è necessario essere coraggiosi e anche generosi, che non vuol dire andare incontro al pubblico, bensì lasciarlo entrare. E’ un mestiere difficilissimo ma altrettanto meraviglioso!

Non solo piccolo e grande schermo ma anche tanto palcoscenico. Cos’è per te il teatro?

E’ e sarà sempre il mio grande amore. Sono un attore molto emotivo e devo confessare che il teatro mi fa anche star male ma ben venga questa sofferenza!

A breve ti vedremo nuovamente nell’opera più famosa di Beckett, ovvero “Aspettando Godot”. Cosa rappresenta per te Beckett?

Devo confessarti che Alessandro Averone, regista di questo spettacolo, è stata davvero bravissimo. Oltre che essere un attore straordinario, in questa veste da regista mi ha fatto comprendere al meglio quanto questo autore, in particolare quest’opera, faccesse parte della vita di ognuno di noi. Ero sempre stato convinto che Beckett fosse molto distante da me, in realtà non era così; “Aspettando Godot” è un testo tra i più attuali e moderni che ci possano essere e non posso far altro che dire Grazie ad Alessandro.

Vesti i panni di Vladimiro. Come ti sei preparato?

Ancora una volta devo ringraziare Alessandro perchè ha puntato tutto sul senso di gioco tra noi attori, sulla nostra complicità; abbiamo lavorato moltissimo su quello e è da lì che credo siano emerse emozioni molto personali, le stesse che mi auguro arrivino al pubblico.

Il tuo personaggio e quello di Mauro Santopietro, che invece interpreta Estragone, sono in attesa di un certo signor Godot. L’attesa è proprio uno degli enigmi della vita dell’uomo; per te?

In questo periodo della mia vita sto cercando di vivere l’hic et nunc, ovvero il qui ed ora e posso assicurarti che è un grande cambiamento per me. Sicuramente l’attesa è uno dei misteri dell’uomo, ma io mi sto sforzando di vivere nel presente.

L’hai citato più volte e ora non posso non chiedertelo. “Aspettando Godot” è uno spettacolo che lo vede regista. Cosa vuol dire essere diretti da Alessandro Averone?

Alessandro ed io siamo grandi amici; abbiamo lavorato insieme come attori e, sin da subito, c’è stata molta sintonia. Ridiamo molto insieme; abbiamo un modo molto simile di approcciarci a questo lavoro ed è anche per questo che credo che lui mi conosca in maniera approfondita. Mi fido moltissimo di lui. E’ un giocare insieme, un gioco molto serio, ma un gioco e lui è stato bravissimo a creare questa bella atmosfera.

Cosa vorresti arrivasse al pubblico di “Aspettando Godot”?

Spero davvero che si diverta con noi in questo gioco, un divertimento sì, ma profondo. Sarebbe per noi il più grande regalo.

Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud. Che tipo di rapporto hai con la parola Sud?

Essendo in parte inglese e in parte italiano, secondo me l’italianità è il Sud. Sono un mix di Nord e Sud e ne sono molto fiero, in me è presente questa estrema dicotomia.

I tuoi prossimi progetti?

Dopo “Aspettando Godot”, riprendo “Vecchi per niente” di Nicola Russo della compagnia Monstera, una produzione del teatro Franco Parenti di Milano.


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