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Ma lo stalking non è un reato di genere
19 Ago 2013 08:24

Non sono una scrittrice né tantomeno una giornalista, forse. Per questo scrivo, poco, solo di quello di cui ho avuto la ventura-sventura di occuparmi direttamente per lavoro, di vedere e di toccare con mano. In questi giorni di calma estiva ho dedicato un po’ più di tempo ad ascoltare le paure e i timori delle vittime che provo a tutelare.

Storie diverse, reati diversi. Minimo comune denominatore la poca comprensione, la solitudine, la paura e l’impotenza. Contemporaneamente, anche in conseguenza dei tragici fatti di cronaca, si sta, a buona ragione, discutendo così tanto di femminicidio e non posso non riscontrare una sorta di parallelismo tra le vittime di usura e le vittime di specifiche forme di persecuzione che spesso culminano nel femminicidio.

Persone che in un primo momento danno l’impressione di essere vicine, uniche a comprendere e ad aiutare proprio quando sei solo e tutte le porte ti si chiudono davanti, diventano i tuoi carnefici. Si crea così un rapporto assolutamente falsato e malato di fiducia, di “amicizia” e di “amore”. Un rapporto che ben presto e per motivi diversi si trasformerà in un incubo.

Questa tipologia di vittime, più di altre, tentano il suicidio. Le vittime di usura hanno una difficoltà maggiore a denunciare il “finto amico” che le ha aiutate. La vittima di stalking denuncia il molestatore, spesso un ex amante, solo quando non può più fare diversamente e, purtroppo, quando ormai è troppo tardi. E in entrambi i casi è l’opinione pubblica, nelle segrete stanze, a giudicare la vittima prima ancora che il carnefice: “Se l’è cercata”, “come ha fatto a non accorgersene”, “sì, ma lei lo ha illuso, doveva aspettarselo”.

E così la vittima è due volte vittima. Senza rendersene conto. Dopo la pronuncia del 2010 della Cassazione si vuole ora dare valenza normativa anche agi atti persecutori perpetrati attraverso la rete. Già, perché ormai, piaccia o non piaccia, tutto (troppo) ruota intorno ai “social network” e il virtuale sorpassa di gran lunga il reale. Nel decreto in discussione, però, al di là di ogni analisi strettamente giuridica, mi piacerebbe vedere maggiormente valorizzato il ruolo centrale che assume la vittima e la sua tutela.

Tutela che andrebbe fatta, in un mondo ideale, anche in via preventiva; lavorando sui costumi e sulla società. E, perché no, sulla cura dei potenziali carnefici, perché, come ci dicono gli studi (e la prassi), anche i carnefici sono a loro volta vittime, quanto meno di loro stessi e della visione deviata che hanno della vita e dell’amore. Perché, per la mia esperienza personale, queste storie parlano di un dolore profondo e atavico che se non sanato in tempo non potrà fare altro che provocare ulteriore dolore.

Ricordiamoci, poi, che lo stalking non è un reato di genere. Molti sono gli uomini vittime che, intrappolati in una società come la nostra che vive ancora dell’icona dell’uomo “macho” a tutti i costi, continuano a subire senza denunciare. Che ci sia, quindi, nei fatti, pari opportunità anche tra le vittime, perché fare nuove leggi non basta se non si traducono i principi astratti in azioni concrete.


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