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Se il Papa si scusa con Martin Lutero ci sarà una ragione, no?
04 Nov 2016 08:30

Conosco alcuni di quelli che hanno affidato alla Rete la loro delusione, l’amarezza e lo stupore perché papa Francesco ha chiesto scusa per la scomunica di Martin Lutero. Si sentono traditi da chi ha la chiave della loro massima certezza: la fede.

Son persone di religiosità profonda e matura, e qualcuno di notevole saggezza e cultura. Posso capire la ragione che li spinge a reagire così: insomma, se ci avete sempre detto che quegli altri, “i protestanti”, sbagliano, tanto da meritare la scomunica e l’esclusione dall’unica, “vera” comunità, “cattolica”, quindi universale; sono loro che devono scusarsi e sperare di essere perdonati o no?

Meno male, verrebbe da dire, che ci sono gli atei (come me) che, non avendo certezze assolute, quindi non discutibili, perché divine (sia pure per interposta gerarchia), si fanno qualche domanda. E la cosa può portare molto lontano, per esempio, verso un rischio mortale per il Cristianesimo, che il Papa cerca di sventare. Ovviamente, questi miei ragionamenti, essendo terra-terra, nel senso tecnico del termine (terreni) e privi di qualsiasi superiore ispirazione, non possono avanzare nessuna pretesa di verità, ma di probabilità, mettiamola così, sì; e forse di alta probabilità, il che inquieta.
Mi spiego, e vado per gradi:

  • Pensate che papa Francesco sbagli? Può darsi. Ma questo potrei dirlo io, non i credenti che lo sanno infallibile, per dogma, quando parla di fede. E se parla da cristiano (cattolico) a cristiani (incluso luterani) di cose di fede, e si è credenti, lo si ascolta e zitti (o no?).
  • Pensate allora che il Papa, con rispetto parlando, sia scemo? Francesco può piacere o no, ma sarebbe azzardato liquidare così uno che sta piegando, con decisione e astuzia, una curia di tostissimi marpioni (ma ci sono anche i santi) legati a ogni sorta di centri di potere e forti di abilità politiche che vengono da duemila anni di navigazione a vista fra le tempeste della storia.
  • E allora? Allora vogliamo partire da un’ipotesi che mi sembra la più ragionevole? Qualunque sia la ragione che lo induce ad agire così, quest’uomo sa quel che fa. E se fa cose che smentiscono ultrasecolari muri alzati a difesa dell’ortodossia, la ragione deve essere proprio grave, gravissima. Insomma: se i cattolici sono nel giusto e “quegli altri” no, quando i cattolici vanno verso “quegli altri”, riabilitando chi fu mandato, in tutti i sensi, all’inferno, si allontanano dal giusto verso l’errore. E volete che proprio il Papa non lo sappia? Quindi, di nuovo: quanto dev’essere grande la ragione per farlo?
  • Papa Francesco è gesuita: soldato delle truppe d’eccellenza del cattolicesimo, così abili e potenti, che quando Roma imperiale voleva conquistare un Paese, mandava le sue legioni; Roma cristiana mandava un gesuita. Questa è la ragione per cui un gesuita “non doveva” diventare Papa, perché si sarebbe cumulato troppo potere nelle mani di una persona sola. E se i cardinali lo hanno eletto lo stesso (sapendo con chi avrebbe avuto a che fare), la ragione dev’essere stata più forte del rischio fin lì ritenuto inaccettabile.
  • Lui continua quello che aveva iniziato Giovanni Paolo II, di cui varrebbe la pena ricordare tre cose: a) il suo pontificato fu estremamente “politico”, ma nella scia delle idee del pittore polacco Adam Chmielowski, che si fece frate, dopo aver deciso che la via di Lenin (con cui si incontrò) e l’ideologia socialista non avrebbero risolto il problema degli ultimi della società, penalizzati dalla politica iperliberista della rivoluzione industriale; e scelse la carità come “terza via” che unisca e non divida, fondando la comunità dei padri Albertiniani, la prima presso cui Wojtyla si recò, appena eletto Papa; b) e fece più lui per far cadere il muro di Berlino, che Gorbaciov (certe decisioni non le prendono uomini singoli e pur potenti: sono frutto di accordi ed equilibri di poteri. Poi, però, si devono attuare quelle decisioni. E lì servono a volte dei nani, come ora, a volte dei giganti); c) Giovanni Paolo II avviò come mai prima una politica di unità fra i cristiani di tutte le Chiese («Dio potrebbe non perdonarci di esserci divisi») e collaborazione fra le religioni, con gli incontri di Assisi e la visita alla sinagoga di Roma (lì, per la verità, quando salutò gli ebrei come “Fratelli maggiori”, qualche rabbino non la prese bene: nella Bibbia, i fratelli maggiori sono sempre fregati da quelli minori: Giacobbe inganna Esaù; Giuseppe regna su tutti gli altri, più grandi di lui; il più piccolo, Beniamino, è il prediletto dal padre…); e quando compiva questi passi storici Wojtyla ripeteva: «Non abbiate paura».
  • Quanto dev’essere forte la ragione che ha reso necessario sostituire papa Ratzinger, per dare maggiore energia all’istituzione? Il mondo sta mutando velocemente, fra nuovi poteri, Paesi che declinano, altri che sembravano ronzini ed ora volano come cavalli di razza, frontiere che cadono, monete uniche, globalizzazione di gusti, costumi e futuro. Il potere tende, ovunque e sempre, a ridurre tutto a uno (è la cultura che moltiplica e complica). In questo quadro, tre religioni monoteiste abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) che già hanno poco più della metà dei fedeli dell’intera umanità potrebbero sembrare troppe. E ci sono guerre “religiose” (non lo sono mai davvero, anche se in nome di un Dio) e persecuzioni di cristiani già in atto.
  • Se il capo della più grande comunità cristiana del mondo (poco meno di 1,3 miliardi di fedeli, su scarsi 2,5) si “piega” per incontrare chi fu cacciato, e addirittura si scusa, che altro vuol dire se non: «Agiamo insieme, per essere più forti»? E, comunque, il grande che porge la mano al più piccolo (numericamente, in questo caso, per i luterani) non si diminuisce, si accresce, mentre il piccolo potrebbe annullarsi. Se una volta fu necessario cacciare gli “eretici” per salvare il cattolicesimo, oggi potrebbe essere ragionevole che li si debbano recuperare per salvare non il cattolicesimo ma il Cristianesimo, facendo fronte comune dinanzi a un pericolo che su tutti incombe.

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