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Chi vuole abbandonare il Mezzogiorno
26 Mar 2015 07:22

La principale spiegazione della scomparsa dell’interesse politico per lo sviluppo del Mezzogiorno come componente essenziale del rilancio dell’economia italiana, sta nell’affermazione culturale del “teorema meridionale”.

Secondo questa intepretazione, senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca e crescerebbe di più; il Sud cresce infatti meno nonostante assorba un enorme flusso di risorse pubbliche; perché queste risorse (sottratte all’Italia che produce) vengono sprecate, finiscono nelle mani di politici corrotti e organizzazioni criminali; perché le fallimentari classi dirigenti del Sud sono espressione diretta della mancanza di cultura e di capitale sociale dei meridionali.

Le politiche pubbliche sono quindi il problema e non la soluzione. Meno se ne fanno meglio è. Si ottengono più risultati positivi: si sottraggono meno risorse alla parte “seria” del paese, si riduce la spesa pubblica complessiva in Italia, si impedisce alle classi dirigenti locali di intermediarle senza frutto, si incentivano finalmente i meridionali a “darsi da fare”.

Per quanto straordinariamente rozza, questa interpretazione della realtà del Sud ha acquistato negli ultimi 15 anni un forte consenso; probabilmente cresciuto nel periodo più recente. Fra molti italiani del CentroNord, come pure del Sud, convinti che i problemi del Mezzogiorno siano fondamentalmente “colpa dei meridionali”, e che quindi sia opportuno finirla con l’”assistenzialismo”.

In una fetta molto ampia delle classi dirigenti italiane, sia economiche, sia culturali, sia politiche, di destra, di centro e di sinistra: per convinzione; per utilità: perché così risorse disponibili possono essere impegnate più profittevolmente verso i propri interessi particolari, i propri territori di appertenenza. Da tempo, sia sulla grande stampa nazionale sia nei mezzi televisivi si è diffusa la stessa stereotipata rappresentazione e analisi del Mezzogiorno.

Non che la denuncia delle evidenti patologie vada oscurata o censurata: tutt’altro. Ma essa assume sempre carattere totalizzante: il Mezzogiorno è solo spreco e inefficienza, senza speranza di un possibile cambiamento. Non vi è molto che si può o si deve fare: l’unica ragionevole strada è quella di abbandonare il Mezzogiorno a sé stesso, costringere i meridionali a far da soli smettendo di vivere sulle spalle dell’Italia che produce, affinchè attraverso un bagno salvifico di minor benessere materiale la società meridionale finalmente si mondi dalle proprie colpe. E’ insita in queste tesi una profonda condanna morale: che ricorda molto l’atteggiamento di molti tedeschi nei confronti della situazione della Grecia.

Il “teorema meridionale” rappresenta una visione semplificata ed estrema della realtà. Ad essa non deve essere contrapposta una visione di difesa “a prescindere” del Mezzogiorno in una discussione che diviene una contrapposizione territoriale a somma nulla. Il compito delle sempre più sparute e indebolite classi dirigenti che provano ad affrontare il tema dello sviluppo del Mezzogiorno nell’ambito dei complessivi processi di sviluppo e trasformazione dell’Italia e dell’Europa diviene così particolarmente arduo.

Da un lato, non può essere mai dimenticato come le difficoltà dipendano a volte in misura cospicua da responsabilità dirette delle classi dirigenti del Sud e, in senso più lato, dell’intera società meridionale. Una difesa d’ufficio del Mezzogiorno, a giustificazione sempre e comunque dei suoi comportamenti, non può essere accettata. Parte delle possibilità di sviluppo dell’area non possono che scaturire da un’azione volta a contrastare i diffusi fenomeni di sottoutilizzo delle risorse, di tolleranza di posizioni di rendita, di accettazione delle irregolarità, di rifiuto della trasparenza e di criteri di valutazione dell’efficienza e del merito.

Un’azione “meridionalista” non può che partire da un contrasto al cattivo Mezzogiorno.

Ma questa è solo una parte dell’agenda. L’altra parte, altrettanto indispensabile, è collegata ad una difesa incisiva degli interessi dei cittadini e delle imprese del Mezzogiorno nell’ambito della politica e della politica economica nazionale. Con buona pace delle mode recenti, il benessere dei paesi e dei territori non è univocamente determinato dalle proprie dotazioni di capitale sociale, ma dipende moltissimo dalle scelte politiche e di politica economica. Il benessere, presente e futuro del Mezzogiorno dipende dalle grandi scelte che l’Italia fa. In particolare dipende dall’esistenza o meno di una forte politica nazionale di sviluppo e coesione.

Con questo termine si fa riferimento ad una pluralità di questioni, fra loro profondamente interconnesse. Lo sforzo nazionale per promuovere fondamentali opere di infrastrutturazione sociale ed economica e per accompagnare la trasformazione strutturale dell’economia attraverso una “politica industriale”, che stimoli la crescita di attività di mercato aperte alla concorrenza internazionale, specie dove ne è più bisogno.

Per reingegnerizzazione l’azione pubblica, non ritagliando risparmi agendo a caso dove è più semplice, ma provando a migliorare la qualità dei servizi pubblici disponibili per i cittadini e le imprese, anche attraverso una diversa distribuzione delle risorse finanziarie correnti, che premino l’efficienza ma tutelino l’equità, fra cittadini e territori. E la questione più importante: vigorose azioni politiche di contrasto all’aumento delle disuguaglianze e delle sacche di povertà e alla diminuzione delle opportunità di ascesa e di affermazione sociale.

E’ evidente che non si tratta di una politica minore, settoriale, straordinaria, ma della corretta declinazione territoriale delle principali politiche pubbliche che servono all’Italia nei prossimi anni, forse decenni. Come sempre, al Mezzogiorno serve quel che serve all’intero paese. Una trasformazione strutturale di tale ampiezza e profondità, per quanto progressiva, richiede sia visione politica che capacità tecnica. In Italia sembrano latitare entrambe, ma soprattutto la prima.

Nell’attuale quadro non vi è alcuna forza politica non solo che abbia una tale complessiva visione del futuro del paese, ma soprattutto che ne prefiguri una corretta declinazione territoriale. E questo è un grande elemento di preoccupazione.


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