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Nessuno dimentichi il professore precario ucciso dalla #ndrangheta
16 Giu 2015 06:31

Le storie delle vittime innocenti delle mafie meritano di essere ricordate. Tutte. La memoria collettiva è un risarcimento – minimo, parziale, insufficiente – da parte di un Paese colpevole, perché troppe volte incapace di assicurare verità e giustizia alle centinaia di cittadine e cittadini uccisi dai clan.

In alcuni casi, però, dobbiamo fare un passo in più. Ne abbiamo il diritto e il dovere. Con Giuseppe Valarioti, per esempio, ucciso a colpi di lupara nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1980. Aveva appena finito di cenare con i suoi compagni del Pci di Rosarno (era segretario di sezione e consigliere comunale) per festeggiare la vittoria alle amministrative. Un risultato inatteso dopo la sonora sconfitta dell’anno precedente, un successo prezioso perché costruito sull’idea precisa e dichiarata di scardinare il sistema che la ‘ndrangheta con pezzi di Dc e Psi aveva costruito in quel lembo di Sud. Non poteva scegliere obiettivo, luogo, momento migliore la ‘ndrangheta per compere il primo omicidio politico della storia della Calabria. Per lanciare un messaggio inequivocabile a tutti, visto che non erano bastate le continue minacce ai comunisti in campagna elettorale, che non erano servite le intimidazioni agli elettori fuori dai seggi: a Rosarno comandiamo noi.

Quella di Peppe Valarioti, ammazzato a soli trent’anni, è la storia di un professore precario e archeologo, intellettuale e dirigente politico, che nella Calabria degli anni Settanta – terra di disoccupazione giovanile e grandi speculazioni, emigrazione e affari sporchi – ha avuto la capacità di interpretare la contraddittoria società del presente e di proiettare la propria azione nel futuro. Per questa ragione le sue intuizioni e le sue idee sono ancora oggi formidabili mappe interpretative della realtà.

Valarioti aveva individuato il malaffare legato ai finanziamenti pubblici al sud quando tutti consideravano quei mega appalti come mucche da mungere, aveva decodificato in anticipo le trasformazioni della ‘ndrangheta e aveva scelto di mettersi di traverso all’ingresso delle cosche in politica e nelle cooperative della sinistra. Credeva nella responsabilità personale e nella partecipazione (“se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”, diceva ai suoi amici e compagni), pensava che la formazione e la cultura fossero le uniche vere opportunità di emancipazione per i giovani del suo territorio, individuava nel lavoro e nel welfare il vero antidoto allo strapotere dei clan, credeva – forse anche perché figlio di contadini – che fosse necessario sporcarsi le mani con i bisogni delle persone e soprattutto considerava la politica (merito anche di un maestro come Peppino Lavorato) uno strumento formidabile per raggiungere il bene comune e contrastare concretamente le mafie.

Una storia personale che è una tessera di una storia collettiva, grande e ambiziosa. Fatta dell’abilità di comprendere i fenomeni sociali, della riconquista di un senso di appartenenza nei confronti di un territorio, del coraggio di combattere una lotta senza quartiere corpo a corpo contro il potentissimo clan Pesce di Rosarno, dell’intransigenza nella battaglia contro la corruzione anche se riguardava i propri compagni di partito, della capacità di intervenire nei processi sociali conquistando il consenso, mettendo in campo un’idea del mondo, una prospettiva per il futuro e facendo buona amministrazione.

Una storia straordinaria. Eppure incredibilmente dimenticata, negata, persino oltraggiata. Da tanti in Calabria e al Sud, da troppi anche tra coloro che si dichiarano eredi di quella storia. Una colpa grave, innanzitutto nei confronti di noi stessi. Perché Valarioti ha dimostrato che un altro modo di fare politica e di fare antimafia – politica e sociale – è esistito. E quindi forse può ancora esistere. Così, nel 35esimo anniversario di quell’omicidio senza un colpevole, travolti dalle vicende di Mafia Capitale, in un vuoto di cultura politica, quando è così confuso il concetto di antimafia in politica e di antimafia sociale, il pensiero non può che andare a quell’esempio antico e così capace di innovazione. Di cui si sente così forte la mancanza. Quanta nostalgia per il futuro, Peppe.


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