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Per salvare il #Sud occorre un gigantesco investimento in istruzione, formazione e cultura
01 Ago 2015 05:46

Il rapporto anche quest’anno dà un quadro apocalittico del Mezzogiorno. C’è bisogno di un gigantesco investimento, così come previsto dal Governo, sul capitale umano meridionale.

Mi dispiace, ma da meridionale mi rifiuto di partecipare al coro dolente a commento dell’ennesimo rapporto Svimez che dà un quadro apocalittico del Sud.

Certo, la situazione è davvero difficile e drammatica, e proprio per questo sarebbero richieste analisi, visione e pazienza al posto del parossismo mediatico di queste ore.

Certo potrei  ricordare che l’ultimo bollettino di Confindustria & Studi e Ricerche per il Mezzogiorno parla di segnali positivi, seppur  timidi, che tornano anche al Sud dopo 7 lunghissimi anni di crisi ininterrotta: occupazione +0,8% nel primo trimestre 2015 rispetto all’anno precedente; utilizzo della Cassa Integrazione sostanzialmente dimezzato rispetto allo stesso periodo del 2014; +6000 imprese nel saldo tra imprese cessate e iscritte raddoppiato  tra il 2013 e il 2014; aumentano le imprese meridionali “in rete” oltre 2.800 a luglio 2015; aumentano  le società di capitali +5% rispetto al 2014.

Certo potrei  elencare alcune azioni del Governo nei confronti del Sud: l’Accordo di Partenariato attribuisce i 2/3 di 42 miliardi di euro di fondi strutturali FESR ed FSE al Sud; il PON Infrastrutture e Ricerca vale 1,8 miliardi; il Fondo Sviluppo e Coesione destina al Mezzogiorno i 2/3 di altri 35 miliardi di euro; ci sono contratti di Sviluppo per oltre 900 milioni, e lo stesso strumento è stato rifinanziato con altri 250 mln di euro.

Ma non voglio partecipare anche io all’equivoco che riguarda lo sviluppo del Sud. Quello di cui parla spesso Carlo Borgomeo.  L’equivoco è il paradigma che, sin dal dopoguerra, si è imposto al Sud,  condannandolo ad importare modelli estranei, e nei fatti a costruire una dimensione politica ed economica di perenne dipendenza dal Nord e dal governo centrale. L’equivoco per cui il problema sono i soldi, sempre troppo pochi, da assegnare al Sud.

60 anni di intervento straordinario non solo non hanno azzerato il gap tra Sud e Nord, ma anzi hanno foraggiato una classe dirigente dipendente dai soldi che arrivavano da Roma.

Cosa hanno prodotto?

  • La mancanza di uno sviluppo locale sano, pienamente integrato e condiviso con i territori e le comunità, che sulla concorrenza sul merito e sulla responsabilità producesse ricchezza e coesione sociale.
  • Ma soprattutto: impresa da commessa pubblica, e parapubblica, il clientelismo, l’assistenzialismo, la cooptazione, l’illegalità diffusa, l’assenza di mobilità sociale, il brain waste dei talenti formati

E allora è banale e offensivo pensare che il problema del Sud siano le risorse. Quelle non sono mai mancate, quello che è mancato semmai è la qualità della spesa che fosse costantemente monitorata.

Il tema del sottosviluppo del Sud gira tutto attorno al fatto che l’intervento straordinario non ha fatto altro che favorire classi dirigenti parassitarie, estrattive, totalmente contrarie al cambiamento. Mentre è necessario far saltare proprio questi equilibri e poteri.

E quindi la via d’uscita è uno Stato che emancipi i meridionali, che offra al Sud gli stessi servizi essenziali garantiti ai cittadini che vivono nel resto del Paese (vedi la rivoluzione portata da Delrio sui fabbisogni standard). E soprattutto un gigantesco investimento, così come previsto dal Governo, sul capitale umano meridionale: istruzione, formazione, cultura.

Per questo tocca volare alto, rovesciare paradigmi falliti, e per una volta andare oltre la polemica estiva.


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