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Vogliamo la verità sugli omicidi delle vittime innocenti di Foggia
02 Apr 2015 07:08

A Francesco Marcone è toccato un destino inimmaginabile vent’anni fa.
Sabato 1 aprile 1995, il giorno dopo che fu ucciso, i giornali non uscirono a causa di uno sciopero. E così fino al lunedì. Un delitto avvenuto 2-3 giorni prima, in una città periferica rispetto ai circuiti mediatici più rilevanti, scivola via dal “timone” che guida il lavoro quotidiano delle redazioni.

A occuparsene, di domenica, il giorno che restava di sua diffusione massima, fu “l’Unità”: «…il signor Francesco m’è sempre sembrata una persona a posto… gentile, cortese, compito… il primo a salutare, il primo a stringerti la mano…», disse al cronista di allora un coinquilino, ignaro del fatto che avrebbe anticipato quello che, con un linguaggio più adeguato alle motivazioni di una Medaglia d’Oro al Valor Civile, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, avrebbe scritto nel 2005, parlando di «esempio di elette virtù civiche».

Il “signor Francesco” dovette aspettare più di un mese per rimbalzare su una tribuna nazionale importante, un talk show che, ogni giovedì, era visto da 5 milioni di italiani. Per “Tempo Reale” di Michele Santoro, gli inviati a Foggia, Alessandro Gaeta e Fabio Venditti, ebbero grandi difficoltà: il primo a ottenere qualche commento nel Palazzo degli Uffici Statali di piazza Cavour che ospitava l’Ufficio del Registro di cui era direttore la vittima; il secondo rimase sconsolatamente solo davanti al pronao della Villa Comunale, malgrado l’appello ai foggiani a raggiungerlo sotto il monumento virtuale a Marcone, eretto con alcuni televisori impilati.

Perciò, vent’anni dopo, a vedere il Teatro comunale “Umberto Giordano” di Foggia illuminato per un tributo a Marcone animato da tanti ragazzi, a partire da quelli dell’Orchestra del Liceo musicale “Poerio”, fa capire quante cose positive siano riuscite a far crescere Daniela e Paolo, i figli di Franco Marcone.

Nel corso della serata di ieri, sono stati rievocati solo alcuni nomi di quella lunga teoria che, ogni 21 marzo, sono letti dai palchi della “Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie”, inventata dall’associazione di Don Luigi Ciotti, anch’essa con vent’anni di esperienze alle spalle.

Chi è Matteo Di Candia, ucciso per errore in un bar di Foggia dove gli amici lo avevano trascinato per pagare da bere per il suo onomastico? Riusciamo a immaginarcelo, mentre i compagni lo mettono in mezzo:
– Matte’, la giornata sta finendo, te la vuoi scappottare? Mena me’, ‘na birra, ‘n aperitivo… –
Era un pensionato di 62 anni, che viveva con la madre. Non aveva moglie né figli. Sono Daniela e Paolo, i figli di Francesco Marcone, a ricordarlo a tutti gli italiani da quindici anni.
Chi è Babon Cheka, quintultimo della lista di 24 vittime della “Uno bianca”?

Chi erano Alessandro, Emanuele e Nicola che, grazie al fatto di avere il cognome Zanetti, spiccano, si fa per dire, in fondo all’elenco delle 81 vittime della strage di Ustica?
Quell’elenco che si apre con Emanuele Notarbartolo, un politico che, guarda caso, aveva lottato contro la corruzione nelle Dogane, ucciso nel 1893 e considerato la prima vittima eccellente di mafia, provoca un sussulto in chi sa o si riconosce in uno di quei 1.053 nomi, a quanti si è arrivati con la ventesima “Giornata della Memoria” celebrata quest’anno a Bologna.
Ma, per diventare un fatto pubblico, per fecondare qualcosa in più, per trasformare un pezzo più o meno grande di comunità, ci vuole un impegno particolare.

Se, vent’anni fa, taceva la maggior parte dei dipendenti, foggiani e non, dell’Amministrazione finanziaria, è una cosa enorme leggere su “Il Sole 24 Ore” e sentire in un intenso videomessaggio proiettato al “Giordano” Rossella Orlando, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate, dire che Marcone è un simbolo, «il nostro simbolo».

Daniela e Paolo più di questo non potevano fare. Specie se si considera cosa è germogliato in tutta la provincia, come testimoniano i presìdi di Libera nati a Lucera, Cerignola, a San Severo; il Laboratorio che porta il nome di Marcone da cui è nata una cooperativa agricola che lavora su un bene confiscato alle mafie. La graphic novel stampata da Edizioni La Meridiana con cui, da quest’anno, la figura di Francesco Marcone avrà anche un profilo più popolare.

Adesso, almeno per i prossimi vent’anni, toccherà impegnarsi per provare a schiarire il cono d’ombra di questa storia in definitiva luminosa di impegno civile. Bisognerà si provi a riposizionare i tanti tasselli dell’inchiesta giudiziaria, a sollecitare nuove testimonianze dirette, a produrre conoscenza anche con le nuove tecnologie.

Perché, se fa parte della minoranza conosciuta e riconosciuta come simbolo, Francesco Marcone è parte anche di quella minoranza, il 25 per cento calcolava l’altra sera a Foggia Don Luigi Ciotti, vittima di delitti insoluti.

Di delitti che per restare insoluti, per essere perfetti è necessario si realizzino con il concorso attivo di chi sa qualcosa di importante e non lo dice.

Il fondatore di “Libera” due giorni fa ha detto due cose pesanti: che la verità sull’uccisione del “signor Francesco” gira ancora per le strade di Foggia e che la memoria rischia di diventare retorica.
Ecco, quella lista di vittime, le lapidi e i monumenti sono un modo emozionante per restituire orgoglio e dignità. Ma, se ci sono verità nascoste o semplicemente rimosse dagli anni che passano, la cosa più giusta che si possa fare è semplicemente rimetterle in circolo perché siano di dominio pubblico e pubblica possa esserne la funzione.

L’altra sera sono state rievocate le parole usate dal Giudice delle indagini preliminari che, nel 2004, fu costretta a decidere l’ultima archiviazione: l’ormai scomparsa Lucia Navazio si impegnò non solo a scrivere di quanto fosse specchiata la vita privata e professionale della vittima ma anche, irritualmente, ad auspicare «l’acquisizione di ulteriori dati, anche mediante il mutare di atteggiamento da parte di chi è a conoscenza di circostanze utili al prosieguo delle indagini. Rendendo noto, in qualunque modo, agli inquirenti elementi di novità che possano consentire la riapertura delle stesse».

Sono parole ricercate, come quelle che, qualche anno prima scandì la collega Simonetta D’Alessandro, come quelle di Ciampi, come quelle che usò il ministro delle Finanze Augusto Fantozzi. Parole “controcorrente”. Perché, invece, i protagonisti del contesto locale hanno alluso, depistato, scombinato, ridimensionato, per convenienza, per quieto vivere ma anche per nascondere illeciti e contiguità che, forse, avrebbero spiegato meglio tutto. In questi vent’anni, il contesto locale ha fabbricato una cornice serena in cui il 31 marzo si incastona senza creare, ormai, troppo disturbo.


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