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Quelli come me finivano sempre in #porta
07 Ott 2015 06:13

Il territorio era diviso come i quadri di un’esposizione.

Dopo il Romagnoli c’era il Bronx di Monsignor Secondo Bologna e J.F. Kennedy con in mezzo gli Orfani di Guerra, dopodiché tratturi e campagna aperta. Non c’era Vazzieri, bensì il Verziere, casa di centinaia di orti cittadini che poi diedero il nome al quartiere, meno che mai San Giovanni e l’Università. La massima aspirazione dei mezzicosi come me era una partitella nella villa del Municipio, che al tempo non aveva decorazioni né sanpietrini, ma una sabbietta chiara e molto fine sulla quale era un piacere calciare di punta e di mezzo collo, almeno chi poteva.
Io non potevo. L’eredità pesante di miopia e astigmatismo mi rendevano vulnerabile ad ogni scontro fisico, la scoliosi mi privava di coordinazione motoria sicché il mio valore calcistico era prossimo allo zero. La storia è sempre la stessa, quelli come me, quelli che poi finivano per raccontare i ricordi, li relegavano in porta, in modo da godersi meglio lo spettacolo, come il cronista di Full Metal Jacket.

Il capo della banda calcistica era certamente Dino Mastropietro, buonanima, mai abbastanza ricordato. Era nato il mio stesso giorno, e i suoi genitori si erano sposati lo stesso giorno dei miei. Avevano il negozio di articoli sportivi proprio sul lato nord della villa, dove oggi c’è un parrucchiere. Il negozio di Dino era l’isola del tesoro: biciclette, palloni, magliette da calcio, ginocchiere, guanti, canne da pesca con tutto l’occorrente, e per gli adulti armi da caccia. Fu grazie a Dino che la squadra dei Falchi ebbe la sua prima e unica divisa, gialla con i numeri verdi, come il Brasile. Io mi sbattevo come un pazzo per quel numero 5, perché Falcao era appena arrivato alla Roma, e mi pareva un dio. Ma, ripeto, io ero troppo scarso per giocare a pallone, non riuscivo nemmeno a essere portiere titolare, perché nei Falchi c’era un portiere bravissimo, che si chiamava Gianni Pinto, e volava da una parte all’altra ad abbrancare palloni, e soprattutto ci vedeva bene. Però arrivò un giorno, perché prima o poi il giorno della fortuna arriva per tutti, nel quale raggiunsi lo stato di grazia calcistico. In villa era vietato giocare, allora come ora. Il terrore di tutti noi era il vigile Michele Denaro, che riusciva ogni volta a prenderci di sorpresa; fischiava, quasi un arbitro immaginario, prendeva il pallone con le mani, e tutti a casa. Qualche volta ci rendeva il pallone, qualche volta lo bucava. Quel giorno però vigili non se ne vedevano, e io navigavo nel mio personale stato di grazia. Le tremendissime aiuole triangolari di oggi non c’erano ancora, quindi spazi liberi per sgambettare, mentre le porte erano di fortuna: una era costituita dall’intercapedine di quelle brutte strutture che allora, come ora, si usavano per le affissioni. I gol si facevano sotto quella triste gogna, trasudante affisse afflizioni di morti, che col tempo si strappavano, colavano come muco sul lugubre scheletro ferroso; l’altra porta era l’interruzione dell’aiuola che circondava la fontana. Porte di un metro e mezzo al massimo, che perciò non richiedevano portieri. I portieri, con la locuzione che ne denotava la leggiadra impostazione aerea, erano di conseguenza ‘volanti’.
Quel giorno io potevo tutto. Segnavo di punta, di piatto, di stinco, di testa, di tacco. Feci non so quanti gol, e viaggiavo con la testa in mezzo agli dei del calcio, quand’ecco arrivarmi un passaggio sul destro, a dieci metri dalla porta, con tutto lo spazio a disposizione per mettere a segno un gol leggendario, alla Gigi Riva. Con movimento plastico caricai sulla gamba sinistra il peso e mi disposi al colpo, confidando in ogni singola fibra del mio corpo: il calcio fu di quelli che si ricordano, quando si sente il collo pieno a contatto con il pallone, e questo pallone diventa all’improvviso leggerissimo, perché lo hai colpito nel modo più completo e soddisfacente. E partì, quel pallone, partì a grandissima velocità, ma non era preciso. Sfiorò il montante destro del tristo spaventapasseri metallico e colpì, in pieno volto, una signora anziana che passeggiava sul marciapiede della villa. La vidi accasciarsi come una Santa Rita qualunque, martirizzata dalla sfera di cuoio, volati via gli occhiali, il cappellino, tra le urla della sua vicina, forse la figlia. Il mio moto vigliacco di bambino mi fece in un primo momento scappare. Poi, mentre tutti si affannavano per soccorrerla, mi avvicinai anche io. Fu a quel punto però che arrivò il vigile, fischiando all’impazzata. Chiamarono addirittura un’ambulanza. Me ne tornai a casa, sconsolato, e anche un po’ impaurito via via che l’adrenalina si trasformava in tossina velenosa. Dino e gli altri vennero più tardi a dirmi che a un certo punto era arrivato anche Tonino Ferro, e mi stava cercando.

Ora, spiegare ad un non campobassano chi fosse Tonino Ferro, ovvero ‘Tonino ‘u’ fierr’ risulta impresa ardua. Di gran lunga il più temuto e rispettato capoclan dell’intera compagine del ‘distretto’, le voci più incontrollate circolavano su di lui, fino al limite del ridicolo: un camorrista, forse un tossico, amico di Vallanzasca, contatti nelle Brigate Rosse e nei GAP e nei NAR, senza distinzioni ideologiche, forse anche con i MODS londinesi. Per qualcuno addirittura era stato in galera a Rebibbia e a San Vittore.

Bisognerebbe tornare alle divisioni del mio incipit: la grande via principale, il corso, aveva due grandi zone di influenza, il distretto e la piazzetta, elementi simbolici delle due grandi fasce sociali dell’epoca. Al distretto si radunavano i ragazzi più problematici, con storie difficili alle spalle, con maggior propensione ad infrangere la legge, e questioni economiche più complicate da affrontare. In piazzetta quelli di buona famiglia, con qualche soldino di più in tasca, vestiti meglio, un po’ più snob ma anche, per forza di cose, molto più simpatici. Per noi regolari, che dalla terza media in poi prendemmo a camminare su e giù per la strada senza appartenere ad alcuna compagine, riuscire a infiltrare la piazzetta era una missione alla quale dedicare l’esistenza. (Anche quella di tentare di abbordare Giuliana Palange, Alessandra Stella o Laura Socci lo era, ma questa è un’altra storia.)

Col passare del tempo le cose si complicarono. La piazzetta a sua volta si divise in due, poiché sul lato sud della stessa si radunarono le frange movimentiste. Erano sempre della piazzetta, ma intanto era arrivata la New Wave e perciò si vedevano i primi vestiti neri, si sentivano certe musiche particolari, ci si isolava da quella che si considerava piatta società ipoculturale e ricca della minuscola cittadina. Però sto divagando troppo.

La questione è che Tonino ‘u fierro era il terrore di quel piccolo mondo. Portava i capelli lunghi fino alle spalle, ma con una gigantesca chierica proprio sulla cima del cranio, tale per cui i capelli gli formavano una spece di corona impazzita di raggi solari, come una rotondissima e obesa statua della libertà. Aveva la r moscia, il che faceva di lui un boss sotto ogni punto di vista, un antesignano delle serie televisive di oggi, e le sue frasi venivano immortalate ad eterna memoria, come quella volta che uno dei suoi lo andò a trovare senza alcun ‘regalino’ e lui lo fulminò così: “Uagliò! Saluti senza canestvi, facciamo finta che non ci abbiamo visto!”

Insomma, Tonino u Fierr mi stava cercando. Non ho mai capito se quello che mi dissero quel giorno Dino, Massimo, Pasquale, I fratelli Iannaccone e Michele Luisi buonanima pure lui, era vero o no. Io però non misi il naso fuori di casa per un mese, tanto che mia madre incominciò a preoccuparsi. Passai lunghissimi pomeriggi nella libreria di papà, e un giorno trovai ‘tecnica e tattica del superbasket’ di Aldo Giordani, e cambiai sport.


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