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Al Sud i centri anti-violenza sono troppo pochi

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Una catena ininterrotta di nomi e di storie. Tra gli ultimi quello di Fabiana, la sedicenne morta dopo essere stata arsa viva dal suo ex fidanzatino, è uno dei casi che rimarrà nella memoria della gente per le atrocità subite e per le età dei ragazzi coinvolti, entrambi minorenni.

Prima di lei, a Palermo la diciassettenne Carmela, uccisa per aver fatto scudo con il suo corpo alla sorella, proteggendola dalla furia assassina dell’ex fidanzatino, che non accettava la fine della loro relazione. Per ogni denuncia di violenza che emerge c’è un ‘sommerso’ di centinaia di storie di donne,di madri e dei figli che vivono con loro, sottoposti ad uno stillicidio psicologico e a maltrattamenti.

Una mano tesa verso le vittime la offrono i centri anti violenza: in Italia ce ne sono 63 su tutto il territorio nazionale, ne servirebbero almeno uno ogni 10 mila abitanti. “Abbiamo accertato che tutte le donne che sono state uccise dal partner e che avevano denunciato le violenze – dice Elisa Ercoli, operatrice dell’Associazione Differenza Donna che gestisce i centri anti violenza per il comune di Roma – non sono passate attraverso un centro anti violenza, strutture create per offrire assistenza psicologica, legale e, nei casi che mettono a rischio l’incolumita” della vittime, offrono anche un alloggio in una casa protetta, alla donna e anche ai figli. Invece, quelle che hanno usufruito dell’assistenza in una struttura sono riuscite a superare la fase critica”. Ma sul territorio nazionale questi centri sono pochi, distribuiti a macchia di leopardo.

Al sud poi, precisa Ercoli, sono rari. Dopo la denuncia alle forze dell’ordine, se non ci sono luoghi che aiutano e proteggono una vittima, questa continua a correre grandi rischi. Anche Gabriella Moscatelli, presidente di ‘Telefono Rosa’ sottolinea la carenza di strutture adeguate.

Dobbiamo prendere coscienza che in Italia non siamo all’altezza della situazione. Ci sono pochissimi centri di accoglienza, pochissime case rifugio. Invitiamo le donne a denunciare ma poi dove vanno? Il primo alleato della violenza è proprio l’isolamento della vittima – sottolinea Moscatelli – spesso le donne non hanno una loro autonomia economica, hanno paura per i figli, non possono contare sull’aiuto di familiari o amici. Dobbiamo trovare soluzioni congiunte per gestire l’emergenza e per dare un futuro a queste persone”. La violenza familiare è la piu” insidiosa: si consuma in silenzio dentro le mura domestiche, giorno dopo giorno.

Uno stillicidio che mette a rischio la salute psicofisica della donna e quella dei figli,vittime di quella che viene definita ‘ violenza assistita’. “Abbiamo indicatori dei traumi subiti dai minori che hanno assistito a forti conflittualita” e a maltrattamenti in famiglia – dice Raffaella Di Cola, responsabile del centro anti violenza Rosaria Lopez-Donatella Colasanti di Roma – disturbi del sonno, dell’alimentazione, della masticazione sono i più comuni. Poi ci sono i disturbi del comportamento: non sono rari i casi di aggressivita” o al contrario atteggiamenti di remissione, introversione e paura. La convivenza con il maltrattante è traumatica. Bisognerebbe allontanarlo o nell’emergenza allontanare e proteggere le vittime.

Ma i posti letto nelle case protette sono pochissimi: in tutta Italia ce ne sono solo 500 ne servirebbero, rispetto al numero delle denunce presentate, almeno 5700″. In tutti quei casi in cui la donna ha necessità di essere ospitata, per tutelare la propria incolumità, la legge prevede che possa usufruire dell’ospitalità in una casa protetta per almeno 90 giorni per sé e i figli minori, con gratuità di vitto e alloggio. Ma il periodo può essere maggiore se ci sono situazioni di pericolo.

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Redazione