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Lampedusa, dopodomani dobbiamo tornare a vergognarci

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L’altra sera per caso ho visto un film. La storia è quella di due ragazzi, lui italiano lei francese, che si conoscono durante il dramma di Genova di qualche anno fa. Nel pieno degli scontri, lei viene colpita alla testa. Sviene. Lui la trova sanguinante in mezzo alla strada, mentre poliziotti corrono da una parte all’altra senza pietà, continuando a colpire gente, caricando ragazzi e ragazze che quel giorno erano venuti a Genova da tutto il mondo. Lui la raccoglie dalla strada e cerca di farla svegliare. Prova a fermare qualche ambulanza ma sono tutte occupate. Sono tutti sanguinanti, tutti feriti, tutti colpiti.

La ragazza si riprende. La testa sanguina un po’ ma poi il sangue si ferma e le cose tornano a posto. I due si innamorano. Lui le ha salvato la vita. Lei se l’è fatta salvare. Iniziano a lavorare per un tipo che organizza concerti. Il ragazzo sogna di fare il fonico. Non poteva andare meglio. Ogni mattina partono col furgoncino carico di casse, mixer, microfoni, per preparare serate. E quando la mattina partono, si fermano all’incrocio di due vie, sempre a Genova, dove ogni mattina 6 o 7 migranti aspettano qualcuno che se li porti a lavorare. Con lo zaino appeso a tracolla, in testa un cappellino, parlano tra di loro una lingua che nessuno capisce. Musicale come poche. Fa quasi ambient, direbbe qualcuno, neri neri verranno sicuramente dall’ Africa o da qualche posto esotico lontano da qui dunque meglio di qui perché ovunque è meglio di dove si sta ora.

In Africa, quanto ci vorrei andare, dice lui una mattina al collega africano che si è infiltrato di forza nella troupe. E dove vorresti andare, gli chiede lui mentre si asciuga il sudore. Non lo so, tu di dove sei? Guinea, risponde lui. E che ci sta in Guinea? Chiede il ragazzo, mentre stringe gli occhi chiari chiari al sole. In Guinea c’è la guerra.
Io la guerra non l’ho mai vista. Ma ho visto mille volte ogni giorno gli occhi di chi sotto i colpi della guerra ha imparato che la vita è qualcosa di assolutamente relativo. Li incontriamo quotidianamente. Sono come noi, ma hanno delle storie tanto diverse dalle nostre che a guardare i loro occhi ci potrebbero sembrare diffidenti e cattivi. La verità è che ne hanno viste troppe. Cose che noi non potremmo mai nemmeno tentare di capire. Cose che non dimenticheranno mai. Soprattutto non dimenticheranno mai quei volti, i volti dell’infanzia, quei volti che ancora sentono dentro nel cuore ogni sera prima di andare a dormire, e continuano a vivere ogni giorno con la speranza di poter trovare, un giorno finalmente, un posto dove poter stare di nuovo insieme. Insieme senza aver più paura di morire.

Il mare della Sicilia ha inghiottito più di cento persone. Immigrati? Clandestini? Profughi? Come li volete chiamare, domani, quei cento volti e anche più inghiottiti dal bellissimo mare di Lampedusa? Come? Sono essere umani, tra loro quattro bambini. Bambini… Insieme a loro, volti senza nome, il mare ha inghiottito anche tutte le loro speranze. E io mi sento colpevole. E non so perché. Forse del fatto che, fino ad oggi, non ho lottato abbastanza per chi abita dietro il sipario della mia storia quotidiana, per tutte quelle persone di cui io ancora non so niente, e che hanno bisogno di noi. Hanno bisogno che ognuno tra noi si dia una bella svegliata prima o poi.

L’africano del film, ovviamente, era un clandestino, che sognava di andare in Belgio dove abita il fratello, e dove sperava che un giorno la sua fidanzata avrebbe potuto raggiungerlo. Allora i due ragazzi decidono di aiutarlo. Partono col furgone per portarlo in Belgio. Ma, appena arrivati, vengono scoperti dalla polizia e arrestati. E condannati a due anni di reclusione. Per aver portato un “clandestino” tra le montagne sacre del Belgio.

Nel finale la ragazza dice: mi hanno portato in carcere per cambiare, affinché io mi penta dei miei errori. Ma quel che ho fatto era giusto. E io qui dentro non mi sento pentita. Io qui dentro mi sento sbagliata.

Mi sono chiesta, oggi, qual è il senso della giustizia. Ma prima mi sono chiesta: stragi a Lampedusa, di minor gravità, si ripetono da tanto tempo. Perché non hanno fatto niente prima? Perché? Cosa stavano aspettando?

Domande inutili, oramai. Questa giornata sta per finire. Quei quattro bambini sono morti e come ultimo suono hanno sentito il grido di terrore dei loro compagni di viaggio. Quei quattro bambini: forse qualcuno li stava aspettando, sognando l’Italia come il posto dove potersi ritrovare finalmente in pace. Ma l’Italia, oggi, è solo il paese della vergogna. E lo è ogni giorno di più.

Oggi, dobbiamo vergognarci. Domani, spero che qualcuno riuscirà a trovare qualche parola di dignitoso cordoglio. Ma dopodomani, dobbiamo tornare a vergognarci. E dobbiamo farlo per tanto tempo ancora.

Addio piccole anime bianche. Addio piccoli volti dell’infanzia. Addio piccole speranze perdute.

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Published by
Ilaria Paluzzi