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Il destino fece il resto

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Aveva dodici anni nel 1912, con in tasca la terza elementare. Era il massimo che poteva ottenere in quel luogo ed in quell’epoca.

Il padre lo considerò pronto per portarlo con sé nel suo negozio di tessuti, con annessa sartoria.

Doveva imparare il mestiere, come si addiceva ai ragazzini come lui.

La famiglia di Pasquale era scampata all’emigrazione, grazie al fiorente commercio che durava da tre generazioni.

Gli otto fratelli del papà, erano emigrati in Argentina. Uno dopo l’altro. Trainati dalla fortuna avuta dal capostipite della diaspora.

Ma il papà di Pasquale non se l’era sentita di chiudere quel negozio, dove campeggiava da settant’anni lo stesso nome, la stessa tabella, la stessa reputazione. Gente seria.

Una sera, l’uomo, che sfiorava la quarantina d’anni, ebbe un malore. Accorse il medico, poi il prete e all’indomani venne caricato sulla carrozza che portava verso Salerno, per raggiungere l’ospedale. Morì dopo tre giorni.

Pasquale rimase solo con la madre, ma solo anche in negozio. A dodici anni decise di non chiudere e di prendere la responsabilità di tutto.

La mattina si alzava alle cinque per aprire bottega.  I contadini facevano le loro spese per i rattoppi di tessuti, prima di andare alle sei in campagna. A mezzogiorno chiudeva e si dedicava alla sartoria, dove lavoravano sotto le sue dipendenze tre sarti, di venti, trenta e sessant’anni. Lo chiamavano don Pasquale, come avevano chiamato don Michele il padre. Dodici anni e una madre che gli stava dietro per quello che poteva.

Il negozio continuò a funzionare, il ragazzino diventava sempre più maturo. Era costretto a comportarsi da maschio della casa e divenne un ometto. Si arrampicava sui gradoni della vita seguendo una traccia profonda. Quella del padre e quella del nonno.

Una sera venne a trovarlo un amico, un coetaneo. L’ometto era cresciuto e aveva ormai quindici anni.

“Senti, siamo amici da tempo, ti devo chiedere un favore. A me piace la figlia di Barbagallo, lo sai. Io voglio portarle una serenata. Dovresti suonare la fisarmonica”.

Era usanza del Sud, sino a tutti gli anni venti, fare la serenata ad una promessa sposa o per candidarsi ad esser marito. Il paese dove Pasquale viveva, non si sottraeva all’usanza.

Le ragazze del posto venivano adocchiate nei pressi della chiesa parrocchiale, dove si recavano la domenica mattina, accompagnate dalle madri.

Era un gioco delle parti. Le madri facevano uscire le giovanette dalla clausura e le tenevano strette sotto il braccio. Ma nel contempo, se oltrepassati i quindici anni, speravano che qualche buon partito le puntasse. Altrimenti dopo i venti anni si rischiava il zitellaggio.

I ragazzi andavano numerosi davanti al piazzale della chiesa, nel dì di festa e la più ammirata era la figlia di Barbagallo. Perché di gran lunga la più più bella.

Aveva dei capelli corvini a riccioli lunghi, una bocca carnosa e rossa, lineamenti armoniosi. Sembrava sorridesse sempre.

La madre la portava in giro con civetteria. Sperava che qualche famiglia nobile del posto la notasse, ma andava anche un giovane di ottimo mestiere.

Comunque voleva vender cara la pelle.

La sera del 2 dicembre del 1915 Pasquale, il suo amico Giovanni, Ciro e Alfonso, andarono sotto la finestra della bella Francesca ed iniziarono a suonare. La finestra rimase chiusa, ma i vicini capirono tutto ed ebbero chiacchiere per la serata ed il giorno successivo.

Dopo qualche sera la scena si ripeté, ma nulla. E così per altre tre volte.

Giovanni era abbattuto e fu proprio Pasquale a spingerlo a fare un ultimo tentativo.

Il suo cuore era a pezzi, la domenica Francesca non lo aveva degnato di uno sguardo. Ma seguì il consiglio.

Iniziarono a suonare alle 21 e dopo cinque minuti la finestra d’incanto si aprì, e si vide la chioma corvina della ragazza, che fece breve apparizione.

In Giovanni si dischiuse il paradiso ed il mattino seguente era nel negozio di Pasquale a studiare la mosse successive.

I ragazzi tornarono altre tre volte e la finsestra si aprì per brevi comparse.

Ormai Giovanni era pronto mentalmente a bussare all’uscio della casa di Francesca, per il fatidico e liturgico incontro con il padre, per chiedere la mano della giovane.

Fu Pasquale a incaricarsi di cucirgli il vestito, una cosa elegante. E mise il suo sarto più esperto a dargli una mano. Voleva che Giovanni desse il meglio di se’ ed insieme preparavano il discorso.

Una mattina, intorno alle 11, Pasquale stava dando gli ultimi ritocchi all’abito. Era alla scelta dei bottoni. Tutto d’un tratto entrò in negozio la madre di Fracesca. Egli si pose imbarazzato a servirla.

“Ditemi signora, in cosa posso essere utile.”

“Vorrei parlarvi, possiamo andare dietro dove avete il laboratorio?”

Pasquale sempre più imbarazzato disse al suo anziano sarto di dargli il cambio al bancone. Così i due rimasero soli.

“Potete parlare.”

“Ecco, io vi ho visto più volte sotto casa mia a suonare la serenata. Per le prime volte non vi avevo individuato. Poi quando mi hanno detto di voi ho dato il permesso a mia figlia di aprire la finestra. Ci dovete scusare, ma non vi avevamo notato”.

Pasquale non capiva ma rispose “Grazie signora”.

“Vedete Pasquale, io e mio marito vi apprezziamo molto e apprezziamo la vostra famiglia. Voi siete rispettati e riveriti. Noi abbiamo cresciuto nostra figlia come un fiore e siamo sicuri che con voi non gli mancherà mai niente.”

Pasquale guardava per aria. “Se venite a casa mio marito vi ascolterà. Voi piacete a Francesca. Oggi la mando qui a a comprare un po’ di filo di cotone, cosi vi dite qualche parola. Ora vado”.

Passò qualche ora. “Pasquà, prima che chiudi, sono passato a vedere il vestito!”

“Pasquale è andato via poco fa, il vestito è qua, potete provarlo.”

Giovanni vestì euforico il capo d’abbigliamento.

Non lo usò mai. Pasquale non si fece vedere per qualche giorno, poi partì per il fronte a difendere l’Italia dagli austriaci.

Per la sua giovane età non poteva essere arruolato, ma combatté lo stesso sui monti con un gruppo di giovani nazionalisti. Gente tosta, da assalto con le baionette. Non si contarono i corpo a corpo a cui partecipò. Ogni giorno metteva in palio la sua vita.

Ma nel 1918 riuscì a portare a casa la pelle. A quel punto sposò Francesca e non ebbe nessuno rimorso.

Sentiva di aveva chiesto il permesso al destino.

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Published by
Gianvito Pizzi