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Il successo del contro-concertone di Taranto dimostra che c’è un Sud che vuole reagire

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“Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo”.

Queste parole, ancora attualissime dopo oltre 40 anni, non sono state pronunciate da un estremista di sinistra o da un vecchio sindacalista, ma da Adriano Olivetti.

E mi sono tornate in mente rientrando a casa dal concerto di Taranto.

Quello che è già stato ribattezzato, per il suo incredibile successo e nonostante il disprezzo espresso dalla Cisl, il “contro-concertone” – per distinguerlo da quello storico di Roma – non è stato soltanto un buonissimo evento musicale con la possibilità per molte band locali emergenti di incontrare un vasto pubblico, ma è stata anche, per tanti, una “chiamata alle arti”: la politica come arte e pratica condivisa con ciascuno che, attraverso l’impegno per il bene della comunità, riscopre corresponsabilmente il suo ruolo civico e non delega più, passivamente, ad altri il diritto di scegliere per il proprio avvenire.

Soprattutto quando poi la scelta intrapresa, da una trasversalmente corrotta classe politica e oligarchia finanziaria, è quella di mercificare l’esperienza del lavoro per massimizzare i profitti. Alterando la genealogia del diritto al lavoro che respinge e rifiuta quello della salute. L’alienazione prodotta da una tipologia di impiego meccanicamente ripetitivo nelle sue azioni anche usuranti, richiama alla nostra memoria il capolavoro “Tempi Moderni” di Chaplin nel quale l’operaio è spogliato completamente della sua umanità. Viene fagocitato dal processo industriale che non può arrestarsi, diluito in un tempo infinito, diventando, alla fine, esso stato un prodotto della fabbricazione.

E non è questo, in fondo, quello che è successo in questi anni, secondo i comitati di cittadini e alcuni magistrati della Procura di Taranto, nell’Ilva e, più in generale, in molti stabilimenti industriali italiani? È soltanto un caso che tra i 57 Siti d’Interesse Nazionale (Sin) ci siano alcuni dei territori più contaminati e socialmente più desviluppati del Paese?

È un caso che le politiche ambientali in questo Paese da decenni non siano mai tra le priorità di chi dice di voler accorciare le distanze tra rappresentanti e rappresentati e promette di voler contrastare il “cancro” della disoccupazione?

Ed è un caso che al concerto di Taranto hanno partecipato soltanto cittadini comuni e di diverse generazioni, con i sindacati e i partiti, pure di “sinistra”, ben lontani? No. Non è un caso. Non è un caso che l’attore e organizzatore Michele Riondino si sia in apertura scagliato contro i Presidenti della Repubblica e della Regione Napolitano e Vendola, rei di aver tutelato più gli autori che le vittime del disastro tarantino.

Non è un caso che sia stato evocato spesso l’art. 32 della Costituzione dai rappresentanti di alcune delle associazioni giunte da tutta Italia con l’intenzione di umanizzare insieme il dolore, psicologico e fisico, e trasformarlo rabbiosamente in energia propositiva di un cambiamento che sta nascendo spontaneamente dal basso. Non è un caso, inoltre, che uno dei momenti più emozionanti è stato quando sono saliti sul palco molti bambini e adolescenti che hanno urlato, da testimoni oculari di un biocidio finora occultato e che sempre più spesso nasce in casa, di “non voler morire, ma vivere”.

E non è un caso, infine, che molti testi musicali, opportunamente selezionati anche da Roy Paci, avessero al centro il tema del futuro: soprattutto quello di un Mezzogiorno che non vuole rassegnarsi e che è pronto a lottare per scrivere un’altra storia non incistata dalla sofferenza delle disuguaglianze sociali ed economiche nella quale, finalmente, proprio al grigiore dei veleni e alla pervicacia del “dio-ssina” sia sostituito non solo il verde della speranza, ma quello di uno sviluppo sostenibile che favorisca un’occupazione rispettosa della dignità di ciascuno.

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Published by
Giuseppe Milano