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Così Riina vuole fermare il pm Di Matteo. “Facciamolo presto, facciamolo grosso”
24 Gen 2014 07:42

Non solo minacce, ma messaggi di morte diretti all’esterno perché siano eseguiti. Nino Di Matteo, il pm che indaga sulla trattativa Stato-mafia che Totò Riina dice di volere eliminare, dà una lettura delle parole del padrino di Corleone. Il boss, intercettato mentre discute con il capomafia pugliese Alberto Lorusso, non parlerebbe solo per intimidire il magistrato che – dice – lo fa impazzire. Ma avrebbe scientemente scelto Lorusso, anche lui detenuto ad Opera, per fare arrivare fuori dall’istituto di pena l’ordine a entrare in azione.

A chi? si interrogano gli inquirenti. Cosa nostra, fiaccata da decine di arresti, non sembra avere la forza militare per organizzare attentati a esponenti istituzionali. E d’altronde Riina dice espressamente che ormai non ci sono più mafiosi con la sua “tempra” criminale. E allora il “facciamolo presto, facciamolo grosso” che fa pensare a un imminente attentato, detto da Riina al pugliese, a chi dovrebbe essere destinato?

Lorusso, in una conversazione, sostiene di avere un arsenale, ma gli investigatori sospettano piuttosto che il messaggio possa essere indirizzato ad altre organizzazioni criminali in contatto con il detenuto della Sacra Corona Unita. Sul ruolo di capo di Cosa nostra di Riina, Di Matteo non ha dubbi. “Fino a qualche anno fa – spiega – risultanze precise investigative facevano emergere che i capi in libertà non volevano prendere o non potevano prendere determinate decisioni se non acquisendo l’avallo e il consenso di colui che ritenevano il vero capo della mafia e cioè Riina. Questa è la situazione che quanto meno fa sospettare che ancora oggi certamente Riina possa tentare di esercitare un ruolo di comando“.

Un ruolo, quello di capo, che il padrino corleonese afferma in ogni riga delle centinaia di pagine di intercettazione depositate al processo sulla trattativa Stato-mafia, rivendicano la paternità di delitti eccellenti come quello Dalla Chiesa e ricordando i “tempi d’oro” delle stragi. A ribadire la leadership del padrino all’udienza del processo sul patto stretto tra mafia e lo Stato è stato anche il pentito Gioacchino La Barbera. Nulla si muoveva se non era Riina a deciderlo.

Il collaboratore di giustizia, condannato per la strage di Capaci, ha raccontato della lista dei nemici che Cosa nostra decise di eliminare dopo l’esito infausto, in Cassazione, del maxi-processo. Politici come Calogero Mannino, Salvo Lima e Claudio Martelli, magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Piero Grasso per il quale già erano stati acquistati tritolo e telecomandi. Il progetto fu abbandonato per motivi tecnici. Al centro della deposizione anche una trattativa parallela a quella condotta dal boss Bernardo Provenzano per il tramite dei carabinieri: protagonisti il mafioso Nino Gioè e un generale dell’Arma pronto a barattare il recupero di opere d’arte scomparse con benefici carcerari per i boss. Il tutto con l’intermediazione di un personaggio legato all’eversione nera come Paolo Bellini. “Il discorso, però, non andò a buon fine“, racconta La Barbera. E il ruolo di Provenzano nella trattativa sarebbe ribadito nelle ultime intercettazioni delle conversazioni di Riina depositate oggi al processo. Il boss ammetterebbe l’esistenza di un dialogo del compaesano con soggetti estranei a Cosa nostra.


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