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Ripartiamo dalla cultura per rifondare l’integrazione
08 Ago 2016 08:45

La situazione sociale e politica che abbiamo di fronte merita di essere valutata con attenzione.

Non ci si può, a mio avviso, rifugiare in interpretazioni riduttive e, parzialmente, tranquillizzanti, ascrivendo ciò che sta accadendo sotto l’etichetta di «populismo». Siamo di fronte a forme di protesta generalizzate che investono gran parte del mondo occidentale. Un filo rosso lega gli avvenimenti che si sono succeduti cronologicamente negli Stati Uniti, in Grecia, in Spagna, in Francia, in Austria e in Italia. E le risposte che i governi hanno sino ad ora saputo dare si sono dimostrate in tutti i casi insufficienti. L’impoverimento della classe media, ormai ridotta a sopravvivere è un’emergenza che, bisognosa di urgenti risposte, sta rischiando di diventare strutturale. Le persone hanno paura, reagiscono all’insicurezza che pervade la loro esistenza con forme di intolleranza e non vogliono rinunciare a ciò che rimane delle conquiste sociali raggiunte nel Novecento.

Non era mai accaduto che i cittadini del nostro Paese perdessero così diffusamente la fiducia nelle classi dirigenti, che queste fossero addirittura viste come il nemico da sconfiggere. Il voto delle ultime amministrative in Italia evidenzia che il governo è visto come il rappresentante dei poteri costituiti, incapace di ascoltare, interpretare e dare risposte alle richieste dei cittadini. Serve a poco, credo, dire se questa reazione, così diffusa e dilagante, sia giusta o sbagliata. È il momento di chiedersi perché si è giunti a questa situazione, e questa domanda devono porsela principalmente i riformisti. Abbiamo di fronte alcuni problemi congiunturali che non possono essere ignorati (penso a quelli delle banche e del debito pubblico), ma non possono essere gli unici nostri obiettivi. Occorre definire una politica che rilanci lo Stato sociale, creda negli investimenti pubblici, aumenti il potere di acquisto dei cittadini, ridando in questo modo fiducia e speranza. Occorre proporre con coraggio un nuovo modello di Europa. Quello che è accaduto con la Brexit è il rifiuto di una globalizzazione che ha impoverito le tradizioni, le storie e le lingue nazionali, creando un’ulteriore sovrastruttura burocratica e amministrativa.

Se si vuole creare un sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che vivono nei Paesi dell’Unione è necessario mettere in primo piano quell’insieme di valori culturali e politici che, per quanto diversi nelle singole tradizioni nazionali, hanno comunque elementi comuni e tali da rendere credibile un vero progetto di integrazione.

La cultura può essere uno straordinario strumento per ricostruire i rapporti di fiducia all’interno di una comunità. Alla cultura, alla scienza e all’arte si richiede uno sforzo ulteriore, come in altri momenti della storia, in cui il pensiero ha saputo trovare nella solidarietà e nell’unione la capacità di attenuare quelle forme di intolleranza che rischiano di uscire vincitrici.

La cultura può essere lo strumento giusto, perché è più rispettosa delle tradizioni, delle storie, delle identità, perché ha più immaginazione, più creatività. Perché le molte esperienze che si sono già affermate nel nostro Paese colgono il valore e la forza dei modelli partecipativi che partono dalla condivisione di un progetto (sociale e di impresa).

Siamo di fronte a una grande sfida per i democratici e per i riformisti.

Quale progetto politico stiamo elaborando per il nostro Paese? La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere dalla capacità di avere visione, dalla forza di alcune idee fondamentali: le forme della democrazia, il bisogno di maggiore eguaglianza, un’etica per la politica.

Occorre una riforma intellettuale e morale, agire sulle coscienze, porre un problema di antropologia culturale. Se il Partito democratico non sarà in grado di dare al più presto risposte appropriate, credo che non sia difficile prevedere che nelle prossime elezioni politiche possa ripetersi ciò che è accaduto nelle amministrative. E non appartengo a quelli che ritengono tale risultato il castigo di Dio, ma il risultato della difficoltà di leggere ciò che nel Paese e nel mondo occidentale sta accadendo. Se non faremo presto, la protesta e la speranza cercheranno altre vie democratiche, diverse da quelle a cui siamo soliti pensare.


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