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Una antica ed eterna biblioteca del Sud
04 Mar 2015 09:19

Aveva una bella biblioteca. Era la biblioteca dei suoi avi. Tre generazioni di raccolte di libri, che partivano da un’edizione originale di un’opera di Vincenzo Monti.

Tanti volumi passati da una mano all’altra, da una vita all’altra, e che avevano prodotto riflessioni esistenziali, oppure allietato serate noiose.

Giorgio era figlio di Giulio, notaio illuminato, padre eccelso, marito rispettoso. Giulio aveva insegnato al figlio il metodo per approcciarsi agli studi. Un’arte della media borghesia meridionale, essenziale per quella grande fiocina di umanisti nata nel diciannovesimo e ventesimo secolo.

Si arrivava agli studi di giurisdizione  o di medicina, con una solida base filosofico-storica.

Giorgio lo aveva intuito, ma aveva capito come quel mondo stava per scomparire e non dava cenno ai suoi amici di quella formazione. La teneva in se’ con pudore.

Il giovane conobbe il direttore di una rivista, che gli diede spazio per scrivere. Non deluse nessuno, anzi, volava basso per non distaccarsi dal pubblico.

Poi si trasferì a Napoli, alla Federico ll, facoltà di storia e filosofia. Grazie ad uno zio, venne introdotto in un circolo culturale della città, dove era il più giovane, ma riusciva a tenere testa ad alcune discussioni, grazie alle riflessioni strutturali di papà Giulio.

Non disdegnava la vita di un ventenne, Giorgio. Ma il suo stile e la sua maturità esistenziale emergevano alla distanza, creando imbarazzi ed equivoci.

Sembrava un individuo con una strada predestinata, ma non voleva lasciare la creatività e l’imprevedibilità in un angolo.

Gli stessi studi gli avevano insegnato ad insinuarsi nei meandri della realtà, dove devi guadagnarti la quotidianità.

Anzi, approfondendo gli spunti filosofici, evinceva quanto la realtà fosse più accessibile e non il contrario. Ma la cultura meridionale cozzava con i principi universali della filosofia.

Le stesse persone di cui discettava di universalità, poi dopo aver chiuso l’argomento, scadevano in comportamenti antitetici.

E questo Giorgio proprio non lo capiva. Non si poteva essere cosi palesemente contraddittori.

Non si poteva essere cultori di Voltaire e trattare la moglie come un essere inferiore in quanto donna. Non si poteva essere fautori di Rousseau ed essere così rigidi e plumbei. Non si poteva avere gli Essai di Montaigne, in luogo della bibbia sul comodino, e poi perdersi dietro stupidi liti condominiali.

I suoi attempati interlocutori, al circolo, gli sembravano per la maggior parte malati di schizofrenia culturale. E più parlava con loro, più aveva l’impressione che quei concetti che ascoltava erano poco metabolizzati. Una sorta di sapone scivoloso al centro di una stanza, più che un pilastro al centro di un palazzo.

Laureatosi, Giorgio tornò al suo paese. Parlò con il padre e gli espresse tutte le sue perplessità. Il notaio era lontano da quel mondo ovattato ma effimero. Lui applicava la sua cultura filosofica nel quotidiano.

Giorgio doveva scegliere. Giorgio doveva prendere una strada nella sua vita.

Scelse di tornare dai signori attempati e di intraprendere la carriera universitaria. Ma prima passò in quella libreria, guardò quei libri, li ringraziò, benedisse i suoi avi. Poi salutò suo padre: “Potrei rimanere qui, ma ci sei già tu. E’ giusto che porti la mia coerenza morale in un altro luogo.”

Se Napoli è stata la patria dell’Illuminismo italiano non è un caso. Se gli illuministi della Repubblica Partenopea vennero sopraffatti, nemmeno.


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