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Io “rappo” al sud. Ecco la west coast italiana
11 Ott 2013 07:42

In principio fu Lugi. Il calabro-etiope con il viso di Rakim – solo un po’ meno “cattivo” – e il flow di Q-Tip oggi è tra le figure più celebrate, benché meno mainstream, della scena rap italiana. Luigi Pecora c’è da quando, già un quarto di secolo fa, a Cosenza si giocava all’hip-hop: un manipolo di giovanissimi writers, rappers e breakers si esibisce sui muri, per strada e nei garage. Nel frattempo studia. Sono quindici-ventenni folgorati da pellicole cult come “Beat street” e dai primi videoclip passati dalle tv private. Le fanzine fotocopiate (su tutte AL, poi divenuta rivista dal grande seguito) arriveranno solo qualche anno dopo, nel frattempo un centro sociale (il Gramna) e una radio comunitaria (Ciroma) fanno da humus traghettando la South Posse – e i cugini della Truscia Posse – tra le due ere del rap italiano: dal pionierismo di fine Ottanta alla Golden Age inaugurata da SXM (1994), pietra miliare dei bolognesi Sangue Misto: bolognesi sì, ma con contaminazioni campano-sarde (con Deda ci sono Neffa da Scafati e Dj Gruff dalla Sardegna), e il nome stesso del gruppo sembra star lì apposta a dirlo. Come da luogo comune, «i meridionali sono dappertutto». Vengono in mente i fratelli Cellamaro, meglio noti come Tormento (ex Sottotono) ed Esa (ex Otr), originari di Reggio Calabria: due icone, oltre che rappresentanti di una folta schiera di oriundi di seconda e terza generazione che ha nel siculo-torinese Ensi – vincitore del talent “Spit” di Mtv – uno degli ultimi epigoni.

Proseguendo in questa visione sud-centrica, i due periodi (le origini, l’età dell’oro) possono essere tranquillamente saldati da Ampollino Rap, rassegna estiva nel cuore delle montagne della Sila che fa da collettore di esperienze lontane eppure legate tra loro, proto-festival (“commercializzatosi” di edizione in edizione) in cui la scena bolognese e quella pugliese si uniscono – merito dei fuorisede che rinnovano mescolanze e intuizioni lessicali, riportando in vita lo spirito del genio lisergico di Andrea Pazienza, apolide e maudit per antonomasia –, per tirarsi poi dietro tutti gli altri. Nei mixtape di quegli anni – siamo a cavallo della metà dei Novanta – c’è una miniera piena di veri e propri gioielli, e davvero ci vorrebbe qualche feticista che possa trasferire su digitale quel patrimonio analogico, rendendolo immortale.

La rinascita del rap – che in realtà non è mai morto, nemmeno quando il borsino della moda non lo dava in ascesa – o meglio il suo sdoganamento “commerciale” offre oggi un ampio ventaglio di artisti. De gustibus. Ognuno può scegliere. Ciò che non è mai finito è l’eterno dibattito su cosa è commerciale e cosa no, i dubbi sulla possibilità di fare «roba di qualità» anche nel prime-time, inteso come vetrina non solo televisiva. È un ciclo che riparte in eterno (o un cane che si morde la coda?), se pensiamo che risale a quasi vent’anni fa l’esordio della striscia quotidiana “One two one two” di Albertino su Radio Deejay, con i gruppi in studio per uno dei primi esperimenti divulgativi sulle 4 discipline – quando, per molti, il rap era ancora Jovanotti che saltella giulivo a Sanremo con le Nike e il cappellino YO!, nella migliore delle ipotesi (nella peggiore: Dj Flash). Additata da molti come «commerciale», appunto, quell’esperienza radiofonica è di fatto un passo importante, forse il primo, nella diffusione della cultura hip-hop in Italia.

In “Storia ragionata dell’hip hop” (Arcana, 2010), Damir Ivic parla distintamente degli albori e delle proiezioni all’oggi. L’oggi è sempre più Youtube e i social network che moltiplicano e fanno rimbalzare (meritoriamente) brani e info, ma pullulano anche di invettive e dissing – o più semplicemente offese e attacchi personali –, più che tra i diretti protagonisti (i rappers), tra i due blocchi di fruitori di un genere divenuto sempre più variegato e magmatico – dunque di sempre più difficile “etichettabilità”. Il rap è tornato sui grandi media (paginate di giornali generalisti e servizi tv, pezzi passati in radio in heavy rotation), addirittura è materia di talent show. E la scena è sempre più fluida – anzi liquida, come da teoria di Bauman –, si moltiplicano le collaborazioni, artisti sulla carta diversi tornano a cercarsi e spesso spiazzano le certezze granitiche di chi ascolta (vedi l’operazione “Duo di picche”, o i mal di pancia tra i 200mila che si sono gustati il video di “Real classic shit” di Mistaman e hanno commentato tra il piccato e il livoroso per avervi visto scorrere alcune facce non proprio gradite…). In questo magma in cui sale costantemente il livello qualitativo medio – in maniera inversamente proporzionale alla soglia di accesso: oggi come in origine bastano un microfono e una base – è possibile individuare canoni e parametri di una specie di “west coast” italiana che unisce Palermo e Napoli e si proietta oltre, anche grazie al web e ai live. I più “anziani” hanno trent’anni o poco più. È una “scuola” i cui mc, letteralmente i maestri di cerimonia delle dance-hall pionieristiche di fine Settanta–inizio Ottanta nella Grande Mela e dintorni, aggiornano l’arte degli antichi “banditori” di paese rispondendo indirettamente alla sapienza toscana dei poeti improvvisatori. Sono maitre à penser per fan sempre più numerosi. Nell’era della parola “social” scritta-e-condivisa, questi artisti, pure presenti (e seguitissimi) su fb e twitter, animano la versione italiana dello Slam poetry d’Oltreoceano. Il germe di Gil Scott-Heron è sempre in circolo.

In questa rassegna che non s’illude minimamente di essere esaustiva e completa, ripartiamo dalla Calabria: negli ultimi 15 anni si sono affacciati artisti eclettici come L-Mare e None da Palmi, ai piatti ancora oggi si segnala Dj Mbatò, al microfono il lametino Tony Polo e Giagià (poi partito per Bologna e spesso al fianco di Lugi), mentre la rapper reggina Loop Luna aggiorna una scena “in rosa” che già nella seconda metà dei Novanta poteva vantare una delle poche coppie al microfono: le vibonesi Viky e Pisa. Ma è Cosenza l’epicentro indiscusso su scala regionale. La punta di diamante è Kiave, che in tutti i suoi passaggi da “casa” (sabato 5 ottobre ha chiuso il tour Spcm che proprio a Cosenza, e non a caso, era iniziato) non manca di fare il tutto esaurito. In una città che ancora piange Dj Marcio – pupillo di Lugi cresciuto nel suo stesso quartiere, una periferia in stile “Fa’ la cosa giusta” di Spike Lee –, è proprio Kiave (Mirko Filice) a catalizzare l’attenzione e a fare proseliti tra i giovanissimi: si distingue anche per come si dimostra attento alle tematiche sociali e forse per questo è «fuori moda» (per citare un suo riuscitissimo pezzo prodotto dal dj paolano Macro Marco, eminenza grigia di caratura internazionale;, ha parlato di femminicidio (un suo video pubblicato su Repubblica.it ha fatto boom di contatti) e precariato (in “11 storie”). Con lui meritano una menzione gli emergenti Libberà, Dongo e Futre, a cui bisogna aggiungere il dj e producer Kerò e il rapper Brigante, anche loro cosentini o dell’hinterland bruzio. In molti hanno cercato altri approdi: il primo degli “expat” fu forse Turi, eclettico e dissacrante mc calabro-russo partito da Oppido Mamertina e oggi in pianta stabile a Roma. Proprio nella Capitale si è formato il collettivo Blue Nox, che da qualche mese ha allargato gli orizzonti migrando verso nord. Di BN riparleremo dopo. Prima dobbiamo passare un attimo dalla Campania.

Nella terra che ha generato, tra gli altri, l’enfant prodige Tayone (classe 1979, dj oggi tra i più longevi e rispettati), Clementino – che proprio con lui e Francesco “Paura” Curci, ex 13Bastardi, ha mosso i primi passi (“È normale”, Videomind) – unisce una presenza scenica di ascendenza teatrale a testi ora giocosi ora di denuncia, con tracce popolarissime tipo “O vient’” (oltre 6 milioni di visualizzazioni su Youtube), girato davanti a quel che resta della Città della Scienza dopo il rogo dello scorso marzo. Gavetta in strada e performance nelle battle di freestyle sparse per l’Italia, Clementino ha messo le cose in chiaro con “La mia musica”, un pantheon che unisce idealmente le due sponde dell’Oceano lungo il 41° parallelo – quello di New York ma anche di Napoli –, in cui snocciola l’elenco dei maestri del rap italiano e statunitense. È un’operazione che s’inserisce in una sorta di sotto-genere (si veda, e si ascolti, su tutti Large Professor e Gensu Dean in “Forever”, e in particolare la prima strofa: un compendio per aspiranti rapper, da mandare a memoria). Si può dire che, dopo la collaborazione con Fabri Fibra e, di recente, con Jovanotti, l’astro di Clementino abbia raggiunto platee ancora più ampie, ma da subito il gradimento di cui ha goduto è stato trasversale e in perenne crescita. La Campania, però, non è solo Clemente Maccaro da Nola. Rocco Hunt da Salerno (appena maggiorenne) a molti della “vecchia scuola” può sembrare un felice aggiornamento del flow e dell’estro di Speaker Cenzou: il web è pieno di video con centri commerciali che vengono letteralmente giù durante i suoi live, con il pubblico che canta le strofe a memoria – e c’è, anche in questo caso, un gradimento trasversale che ricorda l’idolatria per i neomelodici. I temi trattati sono i sentimenti (“L’ammore overo”) e l’adolescenza, la famiglia ma anche il riscatto delle periferie (“Io posso”) e il Sud (“O mar’ e o sol’”, proprio con Clementino).

Un discorso a parte merita «il nuovo Juary di Avellino», come si è autodefinito Ghemon (Gianluca Picariello). Testi profondissimi e sperimentazioni sonore – lodevole quella con il jazzista Luca Aquino – che spesso fanno storcere il naso ai “puristi”. Prolifico come pochi, ha smontato i topos del genere in cui «se questo è un pezzo rap, come sostiene qualcuno devo ripetere il mio nome in continuazione» (“Niente può fermarmi”): per Gilmar-Ghemon Scienz «l’hip hop non è una formula dove uno dice “yo” e l’altro fa il gesto delle corna» (ibidem). Più di recente, ne “La verità (non abita più qua)” esalta le proprie doti canore confezionando un pezzo in cui sembra raggiungere la perfezione stilistica: metricamente più che meticoloso ma senza scadere mai nel tecnicismo da accademia, è forse il rapper che, con Kiave, manda messaggi più diretti e “schierati” politicamente (nel senso alto del termine), come quando – nel nuovo cd “Leaks” del producer calabro-lombardo Fritz da Cat distribuito con XL di Repubblica – annota come «il mondo non è dei puri / vali quanto fatturi» (“Futuretro”, con Mecna, Dj Tsura e Rodrigo d’Erasmo degli Afterhours). Ha riassunto le ansie della cosiddetta Generazione-senza in un azzeccatissimo passaggio sulle banche («quando il mondo per dare dà con l’imbuto, ma a prendere usa i tassi di un mutuo cinquantennale / e sei fottuto se il numero sconosciuto è un direttore di filiale», “Suona sempre”), è l’unico che possa “osare” una rima sulle vittime delle violenze di Stato («più mi reprimono più vivo, come Aldrovandi, Chucchi e Bianzino», “Male di stagione”, mixtape con Dj Nais e Fabri Fibra). In “Qualcosa cambierà”, nel 2007, Ghemon era tra chi poneva le basi per una felice collaborazione che negli anni darà vita al collettivo Blue Nox, da poco gemellatosi alla mega-crew Unlimited Struggle per dare vita alla attivissima e poliedrica Blue Struggle (nella foto), fatta di produttori e rapper di diversa provenienza geografica. Già con il decano Bassi Maestro ne “L’amore dov’è” (in una Milano che sembra Manhattan, con la strumentale di Rock Beats e il sample di Common in ritornello), Ghemon ha ripetuto l’operazione in “Per la mia gente” (la produzione è del canadese Marco Polo). Entrambi i videoclip citati – il secondo è girato a NYC – hanno il tocco del regista Matteo Podini (Frank Siciliano).  

In “Qualcosa cambierà” s’intravede (ma non rappa) anche un giovanissimo Mecna. Provenienza foggiana per un’altra promessa che ha “battuto la strada” di Milano per essere raggiunto dagli altri romani d’adozione (compresi Hyst e il cosentino Rafè) e oggi s’impone come una delle penne più cantautorali – non suoni come un’offesa – della scena hip hop italiana. Ascoltare “Le cose buone” per credere, ma anche “Super”, una prova di metrica oltre che di grafica, altro campo in cui Mecna (Corrado Grilli) è maestro. In Blue Struggle spiccano infine i palermitani Stokka e Madbuddy, quasi mitologici nell’underground per la loro “Ghettoblaster” (un inno alla musica e, appunto, alla Golden Age, dalle «posse» a «la “Rapa dopa”»), e un altro giovane liricista in velocissima ascesa: Johnny Marsiglia. Sulle basi ruvide di Big Joe sembra di essere a Detroit ma è Palermo, la città multietnica in cui si muove Johnny, «vero meticcio originale / altro che purosangue». I contenuti sono conscious, ed è una cifra che si differenzia con l’all-about-me rap di alcune zone del nord Italia.

Il cerchio si chiude con un live di Clementino, Kiave ed Ensi al Forum di Assago: per il quinto compleanno di Hip Hop Tv, sul palco c’è Kurtis Blow, un monumento vivente del genere. Strumentale old school e liriche a incastro per i tre rapper con le radici (mai rinnegate) ben salde al Sud. Per dirla con le parole del caposcuola con cui abbiamo iniziato: non c’è limite allo show.


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