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Come si può spegnere il fuoco delle “criature”
01 Mag 2016 08:35

Camorristi, mafiosi e ‘ndranghestisi parlano poco. Poco e male. Da quando hanno capito che le intercettazioni li fregano, hanno smesso anche di parlare a telefono. Meglio adescare e addestrare i ragazzini. C’è chi in sella a un motorino fa il giro del quartiere mille volte per avvertire il “capo” al primo sospetto, e chi, invece, rimane alla finestra per lanciare l’ allarme alla vista della polizia. Circoli linguistici. Imparare a decifrarli è fondamentale. Come si fa con l’ alfabeto morse, o con il linguaggio dei fratelli sordomuti. I camorristi parlano poco, ma lanciano messaggi chiari. A volte fin troppo chiari.

Pensate davvero che importi qualcosa al mafioso siciliano, detenuto al 41 bis, dell’ inchino fatto fare all’icona di Gesù morto sotto casa sua? Pensate davvero – come qualche ingenuo continua a credere – che in questo atto di sciocca prepotenza ci sia qualche parvenza di religiosità sia pur primitiva e popolare? Macchè. L’ immagine sacra è portata a spalla. Da chi? Chi sono coloro che, fingendosi devoti, disobbediscono al vescovo, al parroco, alla società cristiana e civile, e disattendono gli impegni precedentemente presi? Perché lo fanno? Quale messaggio stanno lanciando?

Queste domande meritano risposte. Bene ha fatto il sindaco di San Michele di Ganzaria a togliersi la fascia tricolore. Bene ha fatto il parroco a ripiegare la stola. Ma non basta. Tutto il popolo, in circostanze simili, deve avere il coraggio di girare le spalle e andare via. E gridare forte il suo dissenso. Senza tentennamenti. La camorra, come la mafia, ha necessità di tenere sotto controllo il territorio. E con il territorio i cittadini che lo abitano. A Napoli sono stati esplosi venticinque colpi di kalashnikov contro la caserma dei carabinieri. Inquietante più di quando si possa credere. Qualcuno, minimizzando, ha detto che sono “cose da bambini”. Guai a relegare questo episodio come un atto di bullismo. I responsabili di certo sono ragazzini, ma non semplici bulli. Gli imberbi e sanguinari camorristi stanno dicendo: «Qui comandiamo noi. Voi carabinieri non ci fate paura. Ognuno fa il suo “ mestiere”. Voi il vostro, noi il nostro. Voi fate finta di non vedere, e noi vi rispetteremo e vi faremo rispettare …».

Quelli così hanno sempre considerato un lavoro “normale” entrare a far parte del “sistema”. Questa convinzione malefica è resa ancora più ferrea quando qualche uomo in divisa cade nella trappola della corruzione. Fa più male un solo appartenente alle forze dell’ ordine, un magistrato, un politico corrotto che mille camorristi messi insieme. La camorra, o meglio, uno di queste “paranze de criature”, senza capi e senza freni, che spadroneggiano e terrorizzano Napoli ha fatto il grande salto.

Bambini inesperti. Drogati. E per questo più pericolosi. Bambini ammaliati da una sete di potere che spaventa. Bambini attorniati, invidiati, emulati da centinaia di altri bambini che si cercano, si odiano, si sbranano per mantenere la loro fetta di potere dalle radici instabili. Se nel giro di pochi giorni non saranno individuati i “coraggiosi” che hanno osato tanto, costoro hanno vinto la loro sfida. Meriteranno più rispetto e più sottomissione.

Questa è la mentalità. Questo è il “circolo linguistico” con cui occorre fare i conti. Chi comanda oggi in quel quartiere? A chi debbono rivolgersi gli abitanti? A chi debbono pagare il pizzo? La “paranza de criature” teme le forze dell’ ordine? Gli spari contro la caserma di Secondigliano sono un segnale. Evidentissimo. Per dire che “ loro” non temono nessuno. Per ribadire “qui comandiamo noi”. Per tentare di scoraggiare chi ha intrapreso un cammino di rinnovamento e di rinascita del territorio. In realtà, però, sono anche un segnale di grande debolezza da parte di chi vuol comandare e vede che gli manca il terreno sotto i piedi. Occorre continuare la battaglia. Con più coraggio. Più dialogo. Più fiducia. Più risorse. Lo Stato deve smetterla di essere il grande assente. E trovare il coraggio e la volontà di venire ad abitare nelle periferie.

(Editoriale apparso su “Avvenire” giovedì 21 Aprile 2016 )


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