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Chi ha paura della verità sulla storia del Sud
11 Mag 2014 20:32

Leggo sul “Mattino” che il Sud non era indietro del 20-25 per cento, rispetto al Nord, al momento dell’Unità.

Chi lo dice? Emanuele Felice, ricercatore alla libera università di Barcellona; lo stesso aveva “dimostrato” il contrario nel suo libro “Perché il Sud è rimasto indietro”.

E che ora dà sostanzialmente regione ai suoi colleghi, Paolo Malanima e Vittorio Daniele, i cui dati prima aspramente contestava e che, nel loro libro, avevano parlato di una differenza assai contenuta (fino al 10 per cento), nel reddito pro capite tra Nord e Sud alla data dell’Unità.

Può succedere. L’errore (quando non è intenzionale; e a tutti, fino a prova contraria, bisogna far credito di buona fede) è un rischio che corre solo chi fa qualcosa; riconoscerlo qualifica, e bene, chi lo fa. Ma Felice uno ne aggiusta e due ne aggiunge almeno due: • la colpa, diciamo così, dell’ottimo studio di Malanima e Daniele, non starebbe tanto nei dati e nelle tesi, quanto nell’uso che ne hanno fatto i “filoborbonici” (gentaglia, par di capire).

Posso fornire a Felice un altro dato, terribile, a rinforzo della sua accusa: un tale (di certo un filoborbonico) ha scagliato contro un vicino di casa una copia del libro di Malanima e Daniele, “Il divario Nord-Sud in Italia dal 1861 al 2011”, e gli ha cavato un occhio.

Ma Felice ce l’ha proprio con me, ritenendomi “filoborbonico” (non ci sarebbe nulla di male; sta di fatto che non lo sono. Mi si spezza il cuore dover deludere lui e i semplificatori che tentano di evitare gli argomenti, pensando di squalificare, così, chi li propone). Ragionassi allo stesso modo, dovrei replicare che lui è “criptoleghista” e “nordista di complemento” (la funzione di supporto offerta da truppe cammellate indigene a quelle coloniali); e la prova è nell’uso fatto, del suo libro, da quanti non aspettavano altro per ripetere il mantra con cui campano da un secolo e mezzo: “Tutta colpa del Sud”.

Ma polemizzare così, pure lui può vederlo, offre solo una soddisfazioncella momentanea, acuisce inutilmente i contrasti e lascia le cose come prima, anzi peggio. Se è d’accordo, potremmo evitarlo; • le stragi risorgimentali “due furono”: Pontelandolfo e Casalduni.

Ma come si fa a dire una cosa del genere? E Campolattaro? E Auletta? E Bronte? (Risparmio l’elenco, noto quasi a tutti, meno a chi insegna all’università, pare). E “fucilati 300 briganti e non briganti” del dispaccio del colonnello Fumel? E l’elenco delle migliaia di fucilati, di paesi distrutti e centinaia di case bruciate, orgogliosamente stilato dal generale Cialdini?

Davvero, professor Felice, lei, abruzzese, non sa cosa fece il generale Pinelli in Abruzzo? Non sa che dovettero rimuoverlo per le proteste internazionali giunte a Torino, per la sua ferocia, e che prima di mandarlo via lo premiarono con medaglia d’oro? Lei crede che chi racconta queste cose voglia farlo per istigare all’odio fra Nord e Sud? Per questo, bastano gli insulti e le leggi della Lega a danno del Sud e la sudditanza dei tanti non dichiaratamente leghisti che consentono, per interesse personale.

Io sono convinto che dirsi le cose, anche le peggiori, non divida, ma unisca, perché ci libera (tutti, Felice, tutti: il Nord e il Sud, lei ed io…) dalle verità taciute, dai rancori sepolti: dalle “parole non dette”. È il peggio che possa capitare nella vita di ognuno di noi e anche di un Paese che si rifiuta di guardare al lato oscuro della sua storia, come chi non guarisce dal suo problema psicologico, per paura di dargli un nome.

Tacere, nascondere (“Un Paese senza verità”: Leonardo Sciascia, ricorda?) è il male d’Italia. Glielo dico diversamente, con una delle più belle lezioni del più giovane premio Nobel della storia della letteratura, Josip Brodskji: “Le parole non dette escono in nevrosi”.


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