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Il dovere di salvare il #Mezzogiorno
23 Dic 2015 09:40

Lo scarto nelle condizioni di vita fra il Mezzogiorno e il resto del paese non riguarda solo la dimensione economica, ma anche molti elementi relativi ai servizi pubblici, e alla dimensione sociale e civile.

Lo certifica, fra gli altri, il bel rapporto dell’Istat sul Benessere Equo e Sostenibile reso noto il 2 dicembre 2015. Ciò che più preoccupa è che diverse dimensioni di questo scarto non si vanno riducendo, come pure in altri periodi storici è avvenuto, ma sono invece crescenti. Questo preoccupa, appunto; ma non sorprende: alla luce tanto delle distanze storiche, quanto, soprattutto, delle politiche recenti.

Il riferimento è in primo luogo alla quantità e alla qualità degli interventi che si vanno realizzando nei grandi servizi pubblici, che riguardano i fondamentali diritti di cittadinanza tutelati dalla Costituzione, e che dovrebbero essere uguali per tutti gli italiani indipendentemente da dove nascono e vivono. C’è stata la grande crisi, e le conseguenti misure di austerità: questo lo sappiamo. Ma l’austerità, quantomeno dal 2011 e ancora oggi, è asimmetrica territorialmente: ha colpito e colpisce di più le regioni del Sud.

Questo avviene per un coacervo di norme: che attengono ad esempio alle regole di finanziamento degli enti locali, alla strutturazione dei servizi di insegnamento (scuola e università), alla sanità. Tante norme, ma un risultato chiaro: i tagli alla spesa, che sono divenuti tagli ai servizi, sono stati più forti al Sud. Certo, in molti casi, specie nel Mezzogiorno, vi è un problema di qualità per gli utenti e di efficienza nell’utilizzo delle risorse.

Ma purtroppo non vi è evidenza che alla riduzione degli interventi stia corrispondendo un aumento della loro qualità. Si guarda necessariamente ai risparmi, per quadrare i conti pubblici; ma non si guarda a sufficienza (in alcuni casi per niente) alla loro ripartizione territoriale e alle azioni necessarie per aumentare l’impatto di ciò che si fa. In secondo luogo, il riferimento è agli investimenti pubblici. Sono le vere vittime della crisi: quando le risorse sono scarse, è più semplice tagliare spese di investimento che spese correnti. Si è arrivati così a livelli estremamente bassi, anche in un confronto storico lungo.

Da alcuni anni, gli investimenti pubblici netti italiani sono negativi: cioè il loro flusso non compensa nemmeno il fisiologico consumo del capitale. Detto rozzamente: non solo non si costruiscono nuove strade, ma non si riesce neanche a curare la manutenzione di quelle che ci sono. E’ un tema nazionale. Ma, naturalmente, di impatto maggiore nel Mezzogiorno, dove le dotazioni (di infrastrutture economiche, sociali, civili) sono minori, e di conseguenza più alta la necessità di investimento. In terzo luogo, ci sono gli andamenti dell’economia. A partire dal 2011 si è aperto uno scarto negli andamenti economici fra il Sud e il Nord che non ha paragoni nel dopoguerra.

Non parliamo dei livelli di reddito – da sempre distanti – ma dalle loro dinamiche. L’ultima crisi è stata diversa dalle precedenti; ha colpito molto più la domanda interna che quella internazionale; l’operatore pubblico non l’ha contrastata con le sue politiche fiscali, ma l’ha aggravata, con l’austerità. L’esito è chiaro a tutti nei numeri, ad esempio, del mercato del lavoro. Non sono congiunture infelici. E’ una nuova condizione strutturale del nostro paese, che potrebbe durare a lungo. Tutti ci auguriamo che la ripresa sia vivace: ma vi sono purtroppo dubbi sia sulla sua tenuta complessiva; sia, ancor più, sulla circostanza che riguardi, almeno in egual misura, tutta le aree del paese. Così non sembra essere: tutte le previsioni disponibili indicano che questi scarti potrebbero permanere anche nel prossimo biennio. Di fronte a questa situazione ci si aspetterebbe un’assunzione di responsabilità da parte della politica. Non si tratta di togliere ad alcuni per dare ad altri.

Ma di riconoscere vecchie e nuove disparità che ci sono nel paese; di disegnare – per quanto possibile con le risorse che ci sono – interventi per tutti, ma che siano più intensi laddove è più necessario. Risorse che non sono inesistenti: negli ultimi giorni abbiamo visto destinare stanziamenti non indifferenti, sia all’Istituto Italiano di Tecnologia per il nuovo polo di ricerca di Milano-Expo, sia a tutti i diciottenni, per la loro formazione culturale.

Evidentemente obiettivi prioritari dell’azione di governo. Il Mezzogiorno, ci dicono i fatti, non lo è. Ce lo dicono le vicende assai discutibili di un Masterplan che avrebbe dovuto – prima della legge di stabilità – indicare priorità e destinare risorse; ce lo dicono le vicende della legge di stabilità: nella quale tutti si aspettavano – perché annunciati da responsabili dell’esecutivo ad alto livello – interventi con una particolare intensità nel Mezzogiorno. Che invece non erano nel documento iniziale, e ancora non ci sono.

Gli scarti documentati dall’Istat hanno certamente radici antiche; derivano, per parte non piccola, da un’efficacia nell’azione pubblica nel Mezzogiorno, tanto delle istituzioni locali quanto di quelle nazionali, che è stata assai più modesta di quanto avrebbe dovuto essere. Richiedono capacità di autocritica, e soprattutto ogni sforzo per migliorare l’utilizzo delle risorse disponibili. Ma sono il frutto anche di scelte e di politiche economiche e sociali anche molto recenti. La storia conta; ma conta, molto, anche la politica contemporanea. I divari non si cancellano da un giorno all’altro; ma se non ci si prova nemmeno, non possono che aumentare.


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