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La finanza impera. E solo una politica “globale” può fermarla
08 Gen 2015 06:18

Il mondo inteso come l’insieme degli stati nazione e delle strutture economiche di diversissime società con il loro sempre più diseguale tenore di vita, insomma, ciò che chiamavamo economia appare sotto il dominio pieno e incontrollato della finanza globale. Fino a ieri gli uomini facevano soldi, pochi o tanti, con il loro lavoro e con le loro imprese. E sempre ci sono stati uomini – pochi – che facevano soldi coi soldi, maneggiando il denaro proprio e degli altri, prestando a interesse, investendo, lucrando.

Nell’antichità i grandi mercanti di Roma prestavano soldi, navi, logistica agli imperatori in guerra, più o meno come i Medici e i Fugger li prestavano agli stati nascenti dell’Europa moderna mentre i funzionari della Compagnia delle Indie creavano gli avamposti commerciali delle future conquiste dell’Impero britannico. Dunque che c’è di nuovo?

Di nuovo c’è che, oggi, il valore globale delle transazioni finanziarie – i movimenti di capitali – eccede di venti volte la somma del prodotto interno lordo di tutte le nazioni del mondo.

Economia finanziaria e tecnologie informatiche si sono potenziate a vicenda a dismisura intrecciando e rendendo interdipendenti tutte le economie.

Se la borsa di Tokio che apre per prima segna un forte ribasso influenzerà al ribasso le borse europee ed entrambe influenzeranno Wall Street il cui andamento iniziale si farà sentire prima che le borse europee chiudano. Come sappiamo per averne pagato le conseguenze la crisi innescata dai derivati dei mutui americani ha contagiato il mondo e quel virus ci è costato l’8% del nostro PIL nel solo 2008.

Al di sopra dell’economia reale – il mondo della produzione e distribuzione di beni e di servizi– si è formato un sopramondo finanziario che condiziona il sottostante. Così, se tornano di moda il marxismo e le profezie sul primato del capitalismo finanziario sembrano esserci buoni motivi.

I capitalisti sono sempre molto attenti a tutto ciò che riguarda i capitali, attenti e interessati a come incrementare e proteggere i propri capitali da tutte le insidie che via via gli anticapitalisti immaginano per tassarli se non espropriarli.

Poiché le azioni dei governi sono limitate agli stati che amministrano, e così le tasse che impongono, mentre il libero movimento dei capitali non conosce confini e si disloca alla velocità dei click dei computers ovunque colga opzioni migliori, un governo che anche solo manifestasse l’intenzione di inasprire il prelievo fiscale sui redditi finanziari otterrebbe come primo risultato quello di veder fuggire altrove il capitale insieme con il prelievo.

Come puntualmente è accaduto in questi mesi da quando il governo Renzi ha annunciato di portare dal 20 al 26% la tassazione delle rendite finanziarie. “Rendite finanziarie”? La definizione evoca l’immagine di pasciuti e rapaci “rentiers” accomodati nei loro uffici dorati o in paradisi tropicali e fiscali a muovere immense ricchezze, indifferenti e irresponsabili delle conseguenze sociali delle loro decisioni. Volubili come gli dei dell’Olimpo gli dei della finanza, a differenza di quelli antichi, sono davvero imperturbabili da tutte le passioni salvo una, la cupidigia.

Senonché quelle che chiamiamo rendite finanziarie comprendono anche i sudati risparmi di milioni di cittadini.

Risparmi in azioni, obbligazioni, buoni del tesoro, fondi pensione, polizze assicurative. Se il governo aumenta le tasse sulle rendite finanziarie colpisce anche i risparmiatori e li spinge a far fronte comune con gli speculatori.

A cosa dobbiamo credere? Che il capitalismo produttivo sia buono e quello finanziario cattivo, che la rendita sia cattiva e il risparmio buono?

Forse quel che è davvero cattivo, nel senso di sbagliato, è l’approccio in termini di buono e cattivo, cioè in termini moralistici.

Morale, viceversa, è un’altra cosa: è l’aspirazione umana a porre i nostri comportamenti sotto la guida della ragione per evitare i guai maggiori e promuovere le azioni utili e sostenibili.

La ragione ci dice che la costruzione di società democratiche è frutto di un’altalenante evoluzione secolare.

Democrazia – demos più kratos – vuol dire potere del popolo, potere popolare. La sua nascita, il suo mantenimento, il suo sviluppo non sono affatto scritti una volta per tutte, al contrario, i suoi approdi restano precari.

La finanza globale separa potere e popolo perché il suo potere sollevandosi al di sopra degli stati nazione tende a farsi irraggiungibile.

La ragione ci dice anche che la politica affronta i primi passi della lunga strada verso la sua necessaria globalizzazione. Essa resta in gran parte locale, regionale, nazionale, la sua potenza si esplica soprattutto in territori circoscritti, i suoi luoghi la contengono e la limitano.

Naturalmente le nazioni più grandi e potenti hanno più possibilità di difendersi ma nemmeno loro possono sfidare impunemente i mercati.

Ecco la grande contraddizione: per riconquistare il potere perduto con l’avvento e il predominio della finanza globale la politica democratica deve farsi anch’essa globale.

Ma sedersi al tavolo della “tecnocrazia politica globale” ha un prezzo che comporta ulteriori “tagli” alla sovranità nazionale e statuale e alle forme della democrazia come l’abbiamo conosciuta.


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