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L’Europa delle ipocrisie, tra protezionismo e concorrenza
08 Ott 2013 08:53

Letta, Hollande ed il G20 hanno recentemente rinnovato la loro dichiarazione di guerra al protezionismo, accusandolo di essere nemico della crescita.

Dunque, secondo la loro ricetta, per crescere dovremmo continuare a consentire l’importazione di prodotti realizzati in paesi che sfruttano il lavoro (anche dei bambini) e che solo per questo costano meno di quelli realizzati dagli artigiani italiani. Io penso che sia vero esattamente il contrario.

La concorrenza, per essere virtuosa, deve svilupparsi in un contesto che assicura condizioni di partenza almeno simili.

Altrimenti è prevaricazione violenta di un sistema economico e sociale, consumata a vantaggio di un altro.

Può definirsi potenzialmente in concorrenza l’attività di un artigiano italiano che fabbrica palloni di cuoio, con quella di un omologo del Bangladesh o del Pakistan che paga il costo del lavoro 30 volte meno? (Bangladesh 798, Vietnam 1152, Fonte FMI).

Evidentemente no! E neppure è vero che questo sistema finisce con il favorire il consumatore finale. Infatti, dopo aver costretto alla chiusura gli artigiani locali, i palloni di cuoio, come tanti altri prodotti, sono tornati a costare come prima o comunque quanto li avrebbe fatti pagare l’artigiano locale, se solo fosse sopravvissuto.

In conclusione, gli unici a guadagnarci sono gli azionisti delle multinazionali del settore che, lasciando sostanzialmente invariati i prezzi di vendita, riescono ad abbattere i costi di produzione legati alla mano d’opera ed a moltiplicare in modo impressionante i loro guadagni. È improprio, quindi, associare questi fenomeni agli effetti della concorrenza.

In realtà sono essi stessi fenomeni distorsivi della concorrenza, che irrompono violentemente (ed illegalmente, aggiungo io) nel tessuto produttivo di un paese, fino a distruggerlo. Illegalmente – aggiungo – perché se il sistema legislativo di un paese vieta l’impiego di minori per la produzione di palloni di cuoio, dovrebbe allo stesso modo vietare la commercializzazione di palloni di cuoio prodotti con il lavoro di minori in paesi diversi dall’Italia.

Per la mia sensibilità non cambia nulla sapere che il pallone di cuoio che acquisto in un negozio di articoli sportivi non l’ha prodotto un bambino italiano, ma un bambino del Bangladesh. E, da cittadino italiano, vorrei che un prodotto realizzato da un bambino o da un lavoratore costretto a lavorare 14 ore al giorno per sette giorni alla settimana fosse del tutto bandito dagli scaffali dei negozi.

Invece, in una sorta di apoteosi dell’ipocrisia, mi ritrovo in un paese che da una parte sanziona il datore di lavoro italiano che ritarda anche solo di qualche giorno il versamento dei contributi e, dall’altra, consente a chi in altri paesi abbatte il costo della mano d’opera sino quasi alla riduzione in schiavitù dei lavoratori, di impossessarsi liberamente del mio mercato, del mio denaro e subito dopo, grazie ai profitti che gli ho consentito di fare, della mia stessa economia.

Opporsi a tutto questo non vuol dire fare del protezionismo.

E lasciare che tutto questo si realizzi, senza muovere un dito a difesa del sistema produttivo nazionale, non vuol dire costruire le condizioni perché concorrenza ed il mercato possano sprigionare i loro effetti positivi sull’economia.

Vuol dire semplicemente creare le condizioni perché prima o poi, pur di sopravvivere, anche i lavoratori (o aspiranti tali) italiani accettino come ineludibile la prospettiva di una riduzione drastica delle proprie retribuzioni e della rinuncia alle conquiste sociali degli ultimi 50 anni.

Una prospettiva anti-progressista, che in Europa paradossalmente sostengono proprio i progressisti. O presunti tali!


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