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Piccola immensa patria mai perduta perché mai davvero abitata
26 Giu 2014 06:23

Il libro di Antonio Errico, ‘Viaggio a Finibusterrae, ultimo di una produzione assai ricca sia nel campo della narrativa che in quello della saggistica, si inserisce in un filone che mi sembra tra i più interessanti della letteratura italiana contemporanea: quello della riscoperta delle radici locali attraverso la lente di un lirismo fortemente evocativo e dalle forti suggestioni simboliche, che recupera da una parte l’archetipo verghiano, dall’altra – nel caso di Errico, esplicitamente – la lezione eliotiana; e penso in particolare – ma è solo un esempio tra i più recenti – agli ultimi libri di Marcello Fois, nei quali è evocata e narrata una Sardegna insieme epica e lirica, intessuta di reminiscenze classiche e bibliche.

A Eliot il libro di Errico si richiama sin dall’epigrafe, con l’invito – tratto dal quarto quartetto – a «spogliarsi dei sensi e della ragione» rivolto a tutti coloro che vengono «da queste parti»: «prendendo qualsiasi strada, partendo da qualsiasi posto, in qualunque ora e in qualunque stagione»; e ancora il quarto quartetto, in particolare il brano sul circolo infinito dell’esplorazione, è ricordato nell’explicit, ad aprire e chiudere così il volume nel segno di una ispirazione comune a tutti i saggi che vi sono raccolti.

Saggi dai titoli bellissimi – ne cito soltanto alcuni: «Del silenzio. Della luce. Della malinconia»; «L’ombra che unisce la terra e il mare»; «Nostalgie di Finibusterrae» – che guidano il lettore in una esplorazione di quelli che sono luoghi dello spirito e della memoria, luoghi – come recita il sottotitolo – di passioni e di confini, luoghi nei quali la storia e la coscienza si sono così stratificate che, paradossalmente, «bisogna essere passante forestiero per capirli», «per riuscire a riconoscere la mistura di falso e di vero, a discernere la realtà dall’invenzione, la concretezza dall’apparenza, per sporfondarci dentro e scandagliare il senso che si nasconde sotto una pietra, nel vuoto superbo di un rosone, nelle leggende custodite dalle grotte, in un linguaggio che strascica le parole a cantilena»: così ricchi di suggestioni e narrazioni che «forse solo chi viene da lontano può capire».

Antonio Errico racconta questi luoghi attraverso la propria intensa e profonda sensibilità lirica, ma anche attraverso la memoria di tanti poeti, filosofi, scrittori che quei luoghi hanno conosciuto e descritto, di modo che alla realtà storica, geografica e antropologica – parafraso un altro passo del libro – viene ad affiancarsi e a sovrapporsi un’altra realtà, fantastica, immaginaria, letteraria. Ed è in questa osmosi di luoghi e di storie che emerge in tutta la sua potenza un dato che è proprio di tanta parte del nostro Paese, quella ricchezza che è caratteristica – come mi è capitato di osservare in altre occasioni e in altri contesti – del nostro patrimonio storico, artistico, culturale, ma anche paesaggistico e ambientale: quella eccezionale densità di riferimenti culturali secondari che fa sì che dietro ad esempio a un monumento antico, a un paesaggio alpino, a una piccola città, a un tratto di litorale, a una torre diroccata così come a una stazione ferroviaria dell’Ottocento, non ci sia soltanto la storia di quei luoghi, ma ci sia anche la stratificazione lasciata dalla letteratura, dall’arte, dalla musica che quei luoghi hanno descritto, o che hanno trovato in essi lo sfondo e lo scenario di eventi e racconti.

E vorrei aggiungere che un recupero anche di questa dimensione dei beni artistici e culturali, sulla scorta di un’ideale cartografia tradotta e trasposta in percorsi selettivi sul modello di quelli suggeriti proprio da questo libro, potrebbe rappresentare un modo di valorizzare il patrimonio innovativo e dal grande potenziale: sia dal punto di vista di un turismo culturale, consapevole e responsabile, sia da quello delle opportunità di occupazione qualificata.

Il libro di Antonio Errico è tutto interessante, stimolante, coinvolgente. Vorrei però soffermarmi in particolare su un capitolo, quello intitolato «Ma dov’è Finibusterrae», nel quale mi ha colpito in modo particolare la dialettica tra ciò che cambia – i paesaggi, le storie, i personaggi, i concetti di passato e di tempo – e ciò che invece rimane immutato: qualcosa «che appartiene ad un codice genetico, alla profondità di un’antropologia, ad una dimensione non sempre completamente decifrabile, ad una sorta di linguaggio segreto con il quale gli esseri e la terra riescono a parlarsi e a comprendersi».

E ancora: «il senso intimo, essenziale, radicale di Finibusterrae, che è un senso di precarietà, di finitudine, di sospensione nel vuoto […] quell’aspettarsi ad ogni istante lo sbriciolarsi della terra sotto i piedi, lo sprofondare nell’abisso, il naufragare nei due mari che corteggiano la terra come pazienti innamorati, o come re defraudati che pretendono di riconquistare i domini».

Così nelle dense, profonde, riflessioni di Errico Finibusterrae, «piccola immensa patria mai perduta perché mai davvero abitata», diviene un luogo del pensiero, dell’immaginario, dell’irreale, della «nostalgia di cose mai state»: «È un oltre, un altrove. È un luogo del logos. È un paese interiore. Un’idea creata dalle parole. È un luogo vicino e lontano che vive il solito destino che è dato a tutti i luoghi che ad un certo punto cadono sotto il dominio della scrittura».

Vorrei concludere queste brevissime considerazioni osservando come questo libro, per cui è doveroso lodare la sensibilità dell’editore Manni, sia anche una dimostrazione memorabile del valore della memoria culturale – nelle sue molteplici, infinite declinazioni – come fondamento della nostra identità e del nostro essere comunità: il recupero, ma prima ancora la consapevolezza di quel passato – sia esso reale oppure leggendario, immaginario, letterario – che dà forma e senso ai luoghi che abitiamo è un valore irrinunciabile, la cui tutela diviene particolarmente urgente nel momento in cui, come ebbe a osservare il compianto Cesare Segre, i rapidissimi cambiamenti che caratterizzano il presente in cui viviamo rischiano di rendercelo lontano e addirittura estraneo.

Con la sua «lentezza di movimento», il passato è percepito sempre più come «un blocco unico rispetto a un presente dalla velocità vertiginosa»: una condizione, questa, alla quale Segre contrapponeva l’«urgenza di formulare protocolli e procedimenti per poter continuare a dialogare, come si faceva una volta, con i testi del passato»; e allo stesso modo occorre continuare a dialogare – come mostra magistralmente questo libro – con i luoghi, che sono anch’essi dei testi, delle voci.

Antonio Errico ebbe a dire una volta, in un’intervista nella quale parlava del suo lavoro di insegnante e dirigente scolastico, che, per rispondere alla domanda posta da tanti studenti: «Ma perché devo studiare?», occorre «cercare di far capire che non è vero che è inutile, che il sapere serve innanzitutto a sé stessi, che conoscere o non conoscere l’Infinito di Leopardi non è la stessa cosa: non cambia il tuo destino, ma cambia il tuo modo di vedere le cose».

È davvero così: la meditata conservazione del passato, nella nostra come in qualsiasi altra società, è il requisito fondamentale per la conoscenza di sé e degli altri, per la consapevolezza della propria identità, per la capacità di pensare e progettare il futuro; è la memoria del passato che ci consente di definire la nostra identità di persone e di comunità; che ci permette di entrare in dialogo con le comunità diverse dalla nostra; che deve guidarci nelle scelte e ispirare il nostro agire.

E dobbiamo essere grati all’autore di questo libro di avercelo ricordato in pagine così suggestive ed emozionanti.


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