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Il destino meschino di tanti soldi del Sud
16 Mar 2015 09:28

Aveva nascosto i suoi soldi in un fazzoletto, poi riposto in un materasso.

La casa era povera e odorava di tale povertà. Con le tende in luogo delle porte, fatta eccezione per il piccolo bagno.

Un topolino, spesso, si fiondava da un vecchio mobile al vano sotto il lavatoio. Ma zio Franceschello, nemmeno ci faceva caso. Lui passava le giornate tra l’orto e la casa, che distavano trecento metri l’una dall’altra.

I figli erano in giro per il mondo, la moglie era andata via da casa ed abitava da suo fratello, dall’altra parte del paese. Il quale fratello aveva promesso a Franceschello un sacco di botte, se si fosse accostato all’abitazione.

“Me l’ha fatta morire di fame a mia sorella! Di fame la stava facendo morire! Se era vivo mio padre l’avrebbe ammazzato con la roncola!”

Zio Francescello si alzava alle sei di mattina, riscaldava mezzo litro di latte e vi intingeva due fette intere di pane. Pane pugliese.

Poi preparava i suoi arnesi, andava a prelevare il cane nel sottostante porcile e si dirigeva in campagna, dove arrivava alle sette.

La sua dimora era nella parte bassa del paese, ovvero nel centro storico, dove vi erano casupole ormai tutte abbandonate per abitazioni nuove, costruite in periferia. Ma vi era ancora chi, come Franceschello, abitava quei tuguri vissuti da umili anime per cinque secoli.

Erano ormai considerate delle topaie, ma a diecimila lire di fitto al mese, solo ciò si poteva ottenere in quel paese del Tavoliere.

Sul fazzoletto di terra che possedeva, lo “zio”, come tutti lo chiamavano, coltivava tutto il coltivavabile. Così poteva foraggiarsi senza frequentare l’alimentari. C’erano anche le galline, qualche coniglio, i colombi.

Spendeva poco Franceschello per vivere, quasi nulla. E vendeva parte del prodotto del suo campo al mercato. Dove non aveva nemmeno un banco e poggiava la roba per terra, su un lenzuolo.

Ma Franceschello si occupava anche di svuotare cantine dei benestanti e portava la roba in un vano attiguo al porcile. Lì faceva un’attenta selezione e proponeva merce riciclata ai poveri del paese. Anche loro selezionati in base alle esigenze reciproche.

Non aveva un computer, ma lo “zio” era un manager della povertà. E operava da più di vent’anni sul “mercato”. Aveva settant’anni e non mollava.

Il materasso si apriva e si chiudeva, ma solo per cumulare. Mai un’uscita, solo entrate. Piccole e costanti, insistenti.

E Franceschello s’inventò anche il cinema in casa. Comprò un proiettore da una famiglia benestante del posto, anzì lo scambiò per un conca in rame molto bella, trovata in una casa di contadini e barattata con loro per un paio di zappe.

Lo “zio” aveva avuto cura di recuperare in giro un po’ di pellicole. Stanlio e Ollio, Baster keaton, Charlye Chaplin. Tutti cortometraggi, che nel 1960 erano tanto graditi, in luogo di un tv ancora elittaria, considerati i costi di un televisore. Per cento lire, nella casa di zio Francescello, alle sedici c’era il cinema. Tre filmini in sequenza. Cinque avventori per volta.

L’imprenditore della povertà non si fermava mai. Orto, mercato, cantine, proiezioni, piccoli servizi. Da mane a sera era in attività.

Un giorno il materasso gli dava l’impressione di scoppiare. Si barricò dentro casa, mettendo un mobile davanti alla porta e aprì il giaciglio.

Uscirono fuori banconote per circa mezz’ora, intrufolate in ogni dove della vecchia lana.

Le contò. Cinquanta milioni. Roba da comprare tre case di lusso in centro. Poi aprì la mattonella sotto il lavatoio e cavò banconote da un paio di buste di plastica. Venti milioni.

Prese tutti i sodi ed andò a seppellirli in campagna, ermeticamente sigillate.

Le trovò vent’anni dopo un suo cugino mentre zappava. Franceschello era morto da dieci anni. Il cugino era un uomo dedito al gioco delle carte. Ed in tre anni riuscì a perdere tutto.

Ed un due novembre, mentre gironzolava nel cimitero, vide la lapide di Franceschello, si avvicinò e lesse: “Franceschello Baluzzi uomo che fu ricco”.

Nottetempo s’introdusse nel cimitero e aggiunse: “Franceschello Baluzzi uomo inutile”.

E si sentì rinfrancato e meno stolto. “Almeno io non li ho seppelliti!” Confidò alla moglie.


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