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Il riscatto delle donne calabresi che sorridono anche nei giorni più cupi
28 Mag 2013 12:35

Leggo e rileggo la lettera di Francesca Chaouqui sulle donne calabresi e cado in un disordine di emozioni che non riesco a controllare.

È così strano dover difendere la mia terra dalla penna altrui, dopo tre anni passati assorbendo le accuse più dolorose: traditore, racconta favole, scrittore di “fotoromanzi”.

È come trovarsi dall’altra parte del fiume in un solo istante. Faccio fatica.

Sono nato e cresciuto in Calabria, e della Calabria ho sempre odiato le logiche criminali. Anch’io, come Francesca Chaouqui, sono emigrato. Attenzione, però: sono andato via, non scappato. Perché le parole sono importanti.

Ho cercato di raccontare il volto truce della‘ndrangheta, pagandone un prezzo altissimo ancora oggi. Perché (me lo ripeto spesso), noi calabresi siamo fatti così: quando racconti un problema, diventi tu il problema. È quello che è successo coi miei libri. Ma trovo conforto in alcuni scritti di Pasolini, che capì prima di altri.

Riconosco i limiti della mia terra. Un posto difficile, dove la vita quotidiana è fatta di equilibri instabili e spesso di rinunce. Si fa più fatica, a certe latitudini.

La morte di Fabiana Luzzi è un fendente al petto. Toglie il fiato. La sua foto, quel postaccio di campagna. Un’immagine che mi tormenta da ieri mattina. Ma ritengo, senza timore di smentita, che una barbarie del genere non possa avere etichette di territorialità: sarebbe potuto accadere ovunque. Nel ricco Nord Est delle imprese in crisi, nel Sud dei poveri e delle mafie. Ovunque. E, ovunque, sarebbe stato inqualificabile. Per questo ritengo che ricamare fantascienza come ha fatto Francesca Chaouqui sia pretestuoso, e soprattutto dannoso. Dannoso per chi si batte contro i veri mali della Calabria, perché fa esultare chi vuol far passare che è tutto un luogo comune.

Nella lettera è scritto, tra le altre cose: “Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio, in Calabria tutte le donne vogliono un figlio maschio, ancora oggi. Se nasci femmina la tua stessa venuta al mondo disattende la volontà di chi dovrebbe amarti incondizionatamente…”. O ancora: “Fabiana è cresciuta come tutte noi, sentendosi dire cittu ca tu si filmmina, non su così pi tia, fai silenzio, sei una donna non sono cose per te”. E poi ancora: “Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale”.

Confesso di non aver letto mai tante falsità sulla mia terra in un colpo solo. I peggiori luoghi comuni raccolti in un solo scritto. Roba che neanche nel Medioevo.

Conosco centinaia di donne calabresi fiere e libere. Ricordo, per esempio, Maria Brosio, Carolina Girasole e Maria Carmela Lanzetta, tre sindache donne che hanno dichiarato guerra ai clan. Oppure Giuseppina Pesce, donna e pentita, in un’organizzazione criminale che non conosce il pentitismo. Ricordo le migliaia di ragazze calabresi che ogni giorno popolano le aule dell’Università di Arcavacata, uno degli atenei culturalmente più frizzanti del Mezzogiorno.

Le donne sono quelle che sanno regalare un sorriso anche nei giorni più cupi, qui, al sud del Sud. Mogli, madri, fidanzate e figlie che possono essere (e forse già sono) il riscatto di questa terra. Le stesse che mi hanno scritto decine di messaggi, stamattina, dopo aver letto la lettera pubblicata sul Corriere. Le stesse che hanno mariti amorevoli, magari emigrati a 1000 chilometri di distanza per garantir loro un futuro migliore. Uno scenario diverso da quello descritto da Francesca Chaouqui, secondo la quale “Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne…”.

Leggendo i numeri del femminicidio in Italia, si scopre che una miscellanea territoriale che ne fa un fenomeno nazionale. Gli “sganassoni”, dunque, non appartengono a una cultura. Ma all’individuo. Alla peggior specie di individuo. Che sia calabrese o lombardo, non cambia.

La mia Calabria vive gli anni più bui della sua storia, soffocata da ‘ndrangheta e politica collusa. Ha un deficit pubblico da mettere i brividi, la Sanità non esiste più, la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa, gli omicidi di ‘ndrangheta ne fanno una delle terre con più morti ammazzati al mondo. Eppure nascere donna è ancora una gioia. Almeno questa.


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