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L’Università italiana con una missione da costruire
29 Feb 2016 08:45

Il Mezzogiorno non ha più propulsione culturale, perché è l’Italia ad averla persa.

Siamo un paese in declino, in maniera più accentuata rispetto alle altre nazioni fondanti dell’Europa.

Il peso delle nostre università è tenue. Esse sono posizionate nelle classifiche mondiali in posti di retrovia. Ci sono delle eccellenze, come è ovvio che sia, ma esse non possono certo sopperire alla mancanza di un peso specifico strutturale.

Le università statunitensi ed inglesi, sono la forza trainante ed anche il nerbo della loro nazioni. Con un’attività capillare di reclutamento di talenti nei paesi di tutto il mondo. Da li’ nasce la propulsione della ricerca nel campo tecnologico, medico, farmaceutico, militare (aimè), alimentare e di tutti i terreni strategici del pianeta-uomo.

In Italia l’Università non è percepita unanimemente come terreno di coltura dello sviluppo della nazione, ma maggiormente come centri per specializzarsi in una disciplina, per poi accedere al mondo del lavoro. Un’università-professione e non un’università-progresso.

L’Università-progresso è appannaggio delle élite culturali, ma non patrimonio concettuale delle masse, o se volete: opinione pubblica.

Il Sud ha pagato tale dazio in maniera più pesante, se pur dotata di eccellenze notevoli.

La laurea è stata una scalata sociale, una scappatoia al destino, oppure come prosecuzione di un destino. La cultura della ricerca, come funzionale alla crescita della nazione, è stata vieppiù sconosciuta.

La frequentazione dell’Università come missione sociale nei riguardi della comunità, come una religione laica, come debito verso chi ci ha preceduto, di chi ci accompagna e di chi proseguirà, non ha avuto molti maestri.

Ora se ne pagano le conseguenze. Nei momenti di crisi, è nei centri di ricerca che si trovano le soluzioni. E non si parla dei centri studi e delle loro attività, che non fanno mancare l’apporto continuo, ma dei giovani impegnati negli studi, che si prodighino per trovare equazioni collettive verso un orientamento che possa creare sviluppo.

Qualcuno ha seminato questa visione?

Ne dubito. Fatte salve le eccezioni, i nostri giovani sono stati allenati al mondo del lavoro e non al mondo degli studi inteso come lavoro.

Se ci fosse stato tale intento, cento anni fa, cinquant’anni fa, non ci troveremmo a fare da esportatori di talenti, verso chi del talento se ne fa qualcosa. E domina il pianeta, tecnologicamente, economicamente e culturalmente, con una lingua ormai universale.

Meditiamo.


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