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Celebrando #CarloLevi che scelse il #Sud per sempre
21 Set 2015 08:26

Venerdi’ scorso sono tornato ad Aliano. Era l’anniversario degli ottant’anni dell’arrivo di Carlo Levi in quel paese non per scelta ma per confino da parte del fascismo. Il confino era iniziato un mese prima in altro paese della Basilicata a Grassano. Anche in quel municipio ad agosto il primo cittadino ha voluto rievocare la data storica coinvolgendo Michele Placido a indossare i panni di don Carlo. Hanno recuperato anche il postale usato da Rosi quando giro’ “Cristo si è fermato ad Eboli” e le divise storiche dei carabinieri. Le stesse divise erano ad Aliano per macchina invece una vecchia balilla come si legge il romanzo. Michele Placido si è ripetuto anche ad Aliano.

C’era tanta gente ad Aliano per l’anniversario. Giornalisti, tanti sindaci di Lucania e Basilicata, e anche il rappresentante di Eboli. C’era Franco Arminio che nello stesso paese anima il festival paesologico de “La luna e i falò’”. E c’erano gli abitanti di Aliano. Vestiti come bambini, contadini, fascisti del 18 settembre del 1935. E tutta questa folla ha pedinato le piazze e le vie del paese sceneggiando parti di quel grande romanzo che racconta della civiltà contadina nell’immaginario paese di Gagliano.

La rievocazione con discorsi del prete del paese ascoltati dal prete attore,le parole di Raffaele Nigro e Rocco Brancati intellettuali mai banali e la musica dei Renanera insieme a tutto il resto non ha mai assunto la dimensione della carnevalata. Aleggiava come una sorta di solennità civile nel vedere quei sindaci con la fascia, i carabinieri in divisa antica e quelli moderni, l’antropologa giunta da lontano, l’animatrice del Rotary pugliese, la fotografa torinese.

Ad Aliano c’erano ancora quelle vecchie signore vestite di nero e che non avevano messo un travestimento ma ancora portano addosso quello che Levi vide in quel mondo lontano. Si sottraggono alla fotografia. Temono forse di essere spettacolarizzate  o derise non so. Ne incontrai due, sedute immobili su un muretto nel buio accanto ad un cane, una sera d’estate arrivando al Festival di Arminio. Erano all’ingresso del paese. Sembravano il monumento vivente a quella civiltà che  per lungo tempo abbiamo ripudiato perché ci ricordava la povertà e il disagio.

Carlo Levi è rimasto nelle pieghe di questa terra perché ha scritto un libro fortunato e monumentale cui ha fatto seguito il film fortunato e monumentale di Rosi e Volontè. Ma lo scrittore e pittore è nelle viscere di Aliano perché non recise mai i rapporti con quei calanchi e i panorami struggenti.

Don Carlo scelse di rimanere per sempre da morto nel cimitero di Aliano.

Nel documentario “Mater Matera”, di prossima uscita nelle sale, si ammirano i fotogrammi del funerale di Levi ad Aliano girate da Mimì Notarangelo.

Sono immagini esemplari. Vedendole ho compreso come Levi appartenga al Sud e come il levismo sia stato solo un esercizio di stile per la defunta critica militante.

Carlo Levi nel suo soggiorno ad Aliano trovo’ un podestà che si chiamava Luigi e incarnava lo spirito parassitario di certa borghesia fascista che opprimeva i contadini. Su quel personaggio mutuo’ lo scrittore la figura dei “luigini”.

Oggi ad Aliano il sindaco si chiama Luigi e ha ribaltato con senso comune quel vecchio mondo fatto di caste e paria.Oggi  la rappresentazione romanzesca del passato riscatta non solo un paese ma un’intera questione che oggi va vista con lenti diverse.

Sui social seguo Gianni Priano, mio coetaneo genovese, che ha scritto un mirabile post che riporto integralmente come glossa al mio viaggio:

“Dice Moni Ovadia che il turismo non è il viaggio ma la metastasi del viaggio. Il turista va a vedere ciò che già conosce mentre il viaggiatore rischia la destabilizzazione della propria vita, il non ritorno. Ulisse (quello di Omero e di Dante) cerca una conoscenza che non è accumulazione ma capacità di cogliere il senso delle cose (e, quindi, anche l’erudizione è metastasi del sapere). Quando il turista fa ritorno a casa ritrova più o meno tutto uguale. Non ci sono Proci a scorazzare per le stanze. Non solo: in verità il turista non torna mai a casa perché da casa non è mai, davvero, partito.- E’ rimasto per tutto il tempo in contatto tecnologico con il punto di partenza. Non lascia niente e nessuno. Né i figli, né i genitori, né la moglie o il marito e neppure l’amante. Non cani, non gatti. In qualunque momento lo ha ritenuto utile o desiderabile (o anche- e soprattutto- compulsivamente) ha massaggiato tramite videoscrittura o vocalmente, ha inviato immagini o filmini di quello che stava facendo e vedendo in tempo reale, ha ricevuto figure, voci, movimenti e tanto altro ancora.

Cosicché il viaggio è ormai quasi impossibile ma, come sempre, è all’interno di questo “quasi” che ancora si potrebbe tentare (e qualcuno ancora tenta) di scovare (e scavare) frammenti di autenticità. Per giocarsela da uomini vivi”.

Oggi è l’anniversario di Porta Pia. Centocinquant’anni fa moriva la teocrazia papalina. Celebrano l’avvenimento i radicali, la massoneria e l’Arcigay che chiede che la data sia festa nazionale. Nella mia Itaca, un’epigrafe nascosta alle parole e alle foto della Rete, in piazza XV marzo ricorda il valore storico di questa ricorrenza. E’ sopravvissuta ai democristiani che volevano rimuoverla negli anni Cinquanta.

Nel congedarmi dai lettori un omaggio ai rugbisti giapponesi che battendo ieri i sudafricani al mondiale hanno reso cronaca l’antico mito di Davide che batte Golia. Spero tanto mettano una targa in quello stadio a memoria dell’impresa.


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