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Quattro milioni di persone lasceranno il Mezzogiorno. #SalviamoilSud
07 Giu 2015 06:45

Pochi giorni fa “The Economist” ci ha ricordato che esiste e persiste, con aspetti drammatici, il “regional divide” dell’Italia, cioè l’antica spaccatura tra Nord e Sud. Si sa: i titoli dei giornali sono velocemente spazzati dal correre del tempo. Ma quella fotografia, scattata non quarant’anni fa, ma mentre ci si scontrava per il rinnovo elettorale di sette Regioni, resta con tutta la sua forza a documentare l’arretratezza del Mezzogiorno.

E la sua distanza – il “divide” – dall’altra parte del Paese.

Fate attenzione: in sette anni, dal 2007 al 2014 dei 943.000 italiani che sono diventati disoccupati il 70% riguarda cittadini del Sud. Si tratta di una cifra impressionante. I dati non sono mai tutto, non sono esaustivi, ma da essi non si può prescindere. La statistica, da sempre, aiuta l’economia e la politica. Prendiamone altri: l’occupazione femminile nel Mezzogiorno è al 33% rispetto al 50% su base nazionale. Ne volete sapere una? Ecco, la Grecia ci supera collocandosi al 43%. E poi il flusso migratorio. La valigia con lo spago viaggia ancora in una sola direzione: tra il 2001 e il 2013 si sono spostate dalle regioni meridionali 700 mila persone, prevalentemente giovani tra i 15 e i 34 anni.

L’Istat ci fa sapere che nei prossimi cinquant’anni il Sud potrebbe perdere un quinto della sua popolazione, qualcosa come oltre 4 milioni di persone che si sposterebbero al nord o in altri luoghi dell’Europa o del mondo. Questo esercizio potrebbe continuare e approfondirsi. Ma è già sufficiente a rappresentare un problema nazionale. Forse il problema più grande e urgente. Se non si affronterà da subito, l’Italia non ce la farà. Mi riferisco all’Italia come sistema. L’Italia come Stato unitario e membro dell’Unione europea. Non è una prospettiva irreale. “Il Nord balza in avanti e il Sud collassa”, ha scritto “The Economist”. Non si scappa da questa realtà bruciante. Siamo bloccati. Si pensi, per esempio, alla vicenda della riunificazione tedesca. Il settimanale britannico ha fatto notare che il divario tra la Germania Ovest e quella dell’Est nel 1990 dopo la riunificazione era molto ma molto più ampio rispetto a quello tra nord e sud del nostro Paese. Adesso, dopo 25 anni è molto ma molto più piccolo.

E la Germania ha goduto di massicci aiuti europei. Ma non li ha sprecati. Li ha usati sino all’ultimo euro. Adesso vorrei dirlo in maniera diretta. Segnalando un allarme ma avvertendo che si ha davanti a noi tutti una grande e inedita possibilità. Dalla scorsa domenica tutte le Regioni del Mezzogiorno, nessuna esclusa, sono amministrate dal centrosinistra e da presidenti quasi tutti appartenenti al Partito Democratico e, inoltre, molte città capoluogo del Sud sono dirette da giunte di centro-sinistra, comunque non in mano alla destra. Ecco dove risiede, in questo momento storico, la Grande Opportunità. Quella di rimettere presto in moto il Mezzogiorno, con le sue molteplici diversità ma sullo sfondo di uno sforzo unitario, per risollevarlo da una condizione di abbandono e di rinuncia. Attraverso una strategica programmazione trans-regionale il Sud può porre le basi per riagganciare la ripresa. Una macro-regione non istituzione ma che nei fatti sappia coordinarsi per investire in infrastrutture, cultura, industria, ricerca e capitale umano per riagganciare – questo l’obiettivo di lungo periodo – il resto del Paese. Serve certamente una presa di coscienza non solo a livello regionale ma anche da parte del governo che deve finalmente puntare sul Sud per trascinare l’Italia verso un nuovo sviluppo e tenerlo con basi solide in Europa.

Ci sono consistenti e importanti risorse finanziarie a disposizione: lo stesso “Piano Juncker” (i famosi 315 miliardi) che i socialisti e i democratici hanno ottenuto dopo il varo del nuovo esecutivo dell’Ue è un elemento concreto da spendere per il rilancio delle infrastrutture, unitamente alla spesa intelligente e sino all’ultimo centesimo dei cosiddetti “Fondi strutturali” per le aree meno sviluppate. Stiamo parlando di iniezioni finanziarie vitali per sopperire a una carenza strutturale che gli abitanti del Sud conoscono sulla loro pelle. Il lavoro e le infrastrutture dovrebbero essere le due parole d’ordine dei prossimi dieci anni. Se gli investimenti nel Nord, negli ultimi anni, sono diminuiti di un quarto, nel Sud sono diminuiti di un terzo. Ci sono da rifare strade e autostrade, porti. ferrovie. Ci vuole una nuova ondata di modernizzazione che riduca le forti diseguaglianze di cui parlano gli economisti Stieglitz e Piketty causate da una stolta politica dell’austerità.

Di recente, Michele Salvati, nel recensire il libro “Ascesa e Declino” di Emanuele Felice – che traccia la storia economica dell’Italia dalla nascita dello Stato sino ai giorni nostri – ha sottolineato che negli ultimi anni la classe politica è colpevole del “cedimento della modernizzazione”, non è stata capace di adeguare l’economia e le istituzioni “al passo veloce dell’innovazione e della competizione internazionale”. E ha aggiunto che il politico ideale “dovrebbe avere l’abilità di mantenere per un lungo periodo un forte consenso elettorale – ne va della democrazia – e la capacità di raccogliere attorno a sé le migliori competenze e capacità del Paese”. Non dico che bisognerà proprio raggiungere questa perfezione. Ma il Mezzogiorno è un banco di prova che ormai non possiamo più eludere. Il centrosinistra lo governerà per cinque anni e ha, dunque, una responsabilità immensa.


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